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L’esperimento Cloud al Cern ha dato buoni risultati…

CERN: Come si formano le nuvole? La risposta ha importanti implicazioni per la nostra comprensione sui cambiamenti climatici, perché le nuvole possono riflettere le radiazioni del Sole verso spazio, riducendo così la quantità di calore che raggiunge la Terra.

E’ proprio un importante esperimento chiamato Cosmics Leaving Outdoor Droplets e condotto al CERN che ci dà delle importanti risposte riguardo la formazione delle nuvole associate ai raggi cosmici dello spazio.

Secondo le stime attuali, circa la metà di tutte le goccioline di nubi iniziano con aerosol. Acido solforico e tracce di vapori di ammoniaca sono utilizzati in tutti i modelli atmosferici denominati CLOUD per la genesi delle nubi, ma il meccanismo e la velocità con cui queste costituiscono gruppi con le molecole d’acqua sono rimaste poco conosciute.

L’esperimento CLOUD simula condizioni atmosferiche all’interno di una camera e usa l’  acceleratore CERN Proton Synchrotron per fornire una fonte artificiale e regolabile della radiazione cosmica. I risultati confermano che a pochi chilometri in atmosfera, il vapore acqueo e l’ acido solforico possono rapidamente formare dei gruppi, e che i raggi cosmici aumentano il tasso di formazione fino a 10 volte o più.

Tuttavia, nello strato più basso dell’atmosfera, a circa un chilometro dalla superficie terrestre, i risultati dell’esperimento CLOUD dimostrano che i vapori aggiuntivi come l’ammoniaca sono necessari per generare gli aerosol.

Secondo Jasper Kirkby, il portavoce dell’esperimento CLOUD , i risultati del gruppo, che sono stati anche pubblicati sulla rivista Nature, mostrano che queste tracce di vapori, che sono indispensabili per la formazione di aerosol, sono in grado di spiegare solo una piccola frazione della produzione degli aerosol atmosferici.

“E ‘stata una grande sorpresa scoprire che la formazione di aerosol nella bassa atmosfera non è dovuto solo all’acido solforico, all’acqua e all’ammoniaca”, ha detto Kirkby. “Ora è di vitale importanza scoprire quali altri vapori sono coinvolti, siano essi in gran parte naturali o di origine umana, e come essi influenzano le nuvole. Questo sarà il nostro prossimo lavoro. ”

Fonte: http://blogs.physicstoday.org/newspicks/2011/08/cern-clears-the-sky-on-cloud-f.html?track=tweet

Simon

AL CERN SONO SOLITI SPRECARE TEMPO E DENARO

Naturalmente scherzo, al CERN lavorano persone serie e molto in gamba.

Però, se la scienza ufficiale è quella dell’IPCC, per cui la temperatura sul pianeta non è influenzata dai cicli/macchie/flusso solare, perché mette in piedi un progetto complesso, costoso e di lungo periodo come l’esperimento CLOUD?

L’esperimento CLOUD (Comics leaving outdoor droplets) tende a verificare l’ipotesi di Svensmark & Friis-Christensen sui GCR (Galactic cosmic rays). Il NIA ne ha già parlato dell’esperimento nel post del 21 ottobre (http://daltonsminima.wordpress.com/tag/raggi-cosmici/).

Riassumo in breve l’ipotesi di Svensmark: una diminuzione dell’attività solare implica una diminuzione del flusso solare che protegge la terra dai raggi cosmici. Meno flusso solare, più raggi cosmici colpiscono la terra. Fin qui, considerati anche gli ultimi dati sull’incremento dei raggi cosmici, credo ci siano pochi dubbi. La parte più controversa dell’ipotesi riguarda la possibilità che i raggi cosmici possano contribuire alla formazione delle nuvole, per lo meno in certe condizioni. Secondo i calcoli di alcuni scienziati, studiando il periodo tra il 1984 e il 2004 la correlazione tra quantità nubi basse in determinate latitudini e livello di GCR risulterebbe superiore al 90% (Ukoskin et al, GRL 2006).

Insomma, se la teoria di Svensmark fosse confermata, il livello di GCR influirebbe sul clima se non altro perché aumenterebbe l’albedo dovuta alle nubi. In buona sostanza, il livello di attività solare influenzerebbe significativamente il clima terrestre.

Ora, per verificare quanto sopra, il CERN mette in piedi un esperimento che, secondo quanto esposto dal suo portavoce J.Kirby durante la presentazione del giugno scorso, prevede:

– la collaborazione di 19 università tra Europa (no, l’Italia non è presente, non chiedetelo nemmeno), Russia e USA

– il coinvolgimento di 14 istituti per lo studio dell’atmosfera

– una programmazione che parte dal 2009 per arrivare al 2013

– requisiti di progettazione estremamente complessi che riporto di seguito senza traduzione (mi sembra anche piuttosto difficile…), giusto per averne un’idea (preciso solo che “large chamber” è il cilindro di qualche metro di altezza entro il quale viene effettuato l’esperimento):

Large chamber:

? Diffusion lifetime of aerosols/trace gases to walls ~L2

? Dilution lifetime of makeup gases ~L3

=> 3m chamber has typically 5-10 hr lifetimes

• Ultra-clean conditions:

? Condensable vapours, eg. [H2SO4] ~0.1 pptv

? Ultrapure air supply from cryogenic liquids

? UHV procedures for inner surfaces, no plastics

• Temperature stability and wide T range

? 0.1oC stability

? Fibre-optic UV system for photochemistry

? -90C ? +100C range

• Field cage up to 30 kV/m:

? Zero residual field

• Particle beam

? Wide beam for ~uniform exposure

• Comprehensive analysers (measure “everything”, as for collider detectors…)

? Mass spectrometers for H2SO4, organics, aerosol composition

Non oso immaginare il costo di un “comprehensive analysers” che misura “tutto”!!!

Ciò premesso, mi sembra che anche per un organismo importante come il CERN questo tipo di esperimento impegni ingenti risorse.

Ma, il 15 dicembre scorso, purtroppo, Svensmark viene colpito da infarto in diretta TV. Fortunatamente se la cava. In merito a questa notizia, esce un articolo sul Corriere della Sera a firma di E.Burchia:

www.corriere.it/cronache/09_dicembre_15/attacco-di-cuore-fisico-danese-elmar-burchia_0255eba0-e961-11de-ad79-00144f02aabc.shtml

L’articolo chiude spiegando che secondo Paul Crutzen, del Max Planck Institute in Germania, vincitore del premio Nobel per aver scoperto il ruolo del buco dell’ozono, gli studi danesi presentano una serie di problemi, ma «nonostante Laut li abbia evidenziati – afferma – la teoria continua a saltare fuori e la cosa è piuttosto irritante».

Ecco, io immagino che la maggior parte delle persone che abbiano letto l’articolo, senza sapere altro, abbia avuto l’impressione che la scienza si sia definitivamente espressa sul tema. C’è un gruppuscolo di ricercatori danesi, autori di una teoria risibile, o meglio, irritante, che sono stati bacchettati da scienziati ben più importanti, tra i quali un premio Nobel…

…eppure, io non credo che al CERN siano soliti sprecare tempo e denaro.

Agrimensore

Al Cern un test senza precedenti decifra le metamorfosi del riscaldamento globale e il ruolo del Sole.

Va beh, rilassiamoci con un articolo apparso sul quotidiano “La stampa” qualche giorno fa che spiega le potenzialità di un profondo minimo solare secondo la nota teoria di Svensmark. ringrazio Michele (rn) per avermelo proposto.

La data si avvicina: il 7 dicembre si aprirà a Copenaghen la conferenza sul clima dell’Onu e i delegati di 194 Paesi dovranno decidere quali contromisure prendere per contrastare il riscaldamento del Pianeta. L’accordo resta lontano, soprattutto tra i paesi più ricchi – per anni i grandi inquinatori – e la economie emergenti, Cina e India in testa, poco inclini ad accettare vincoli a una crescita sempre impetuosa.

Intanto, anche gli scienziati si preparano a questa scadenza che molti giudicano decisiva e intervengono nel dibattito con l’unico strumento a loro disposizione: il rigore del metodo galileiano. Intanto nel più grande laboratorio di fisica del mondo, il Cern di Ginevra, gli studiosi si apprestano a dare il via, quasi in contemporanea all’accensione dell’acceleratore di particelle Lhc, all’esperimento “Cloud” (l’acronimo, che sta per “Comics leaving outdoor droplets”, è il termine inglese di nuvola): per la prima volta utilizzerà proprio un acceleratore di particelle per ricreare in laboratorio una delle realtà più evanescenti in natura, le nuvole. È un tentativo senza precedenti, che, in realtà, ha un’origine antica: l’idea di coinvolgere il laboratorio di Ginevra in questo tipo di studio nasce alcuni anni fa, in seguito alla partecipazione dell’ex direttore del Cern stesso, Robert Aymar, a una sessione dei seminari di Erice dedicata ai mutamenti climatici.

Scopo del progetto, a cui prendono parte una ventina d’istituti di Russia, USA e Unione Europea, è studiare l’influenza della formazione delle nuvole, e di conseguenza sul clima terrestre, dei raggi cosmici, il cui flusso è correlato all’attività del Sole. Il momento sembra particolarmente azzeccato. La nostra stella, anche se non ce ne accorgiamo, sembra essersi un po’ addormentata. Da quasi 700 giorni, ormai, la sua superfice non presenta macchie, come rilevano le immagini della sonda europea “Soho”. Un record assoluto da qundo (era la prima metà dell’Ottocento) si raccoglie questo tipo di dati. Una condizione che sta mettendo in allerta gli studiosi come dimostra “Sky&Telescope”, la rivista di astronomia più diffusa al mondo, che ha dedicato al fenomeno la copertina con un titolo eloquente: “Che cosa non funziona nel nostro Sole?”.

Le macchie solari, regioni della fotosfera caratterizzate da una temperatura più bassa rispetto al resto della superficie, furono osservate per la prima volta da Galileo Galilei 400 anni fa. Caratterizzate da una periodicità di circa 11 anni, la loro assenza è spesso associata a un irrigidimento delle temperature sulla Terra. Sarebbe bastato che il genio pisano fosse vissuto alcuni decenni dopo, tra il 1645 e il 1715, e non avrebbe visto nulla. In quel periodo, infatti, la nostra stella attraversò una fase di letargo, battezzata ”Minimo di Maunder”. Una lunga quiete, accompagnata sul nostro pianeta da un calo della temperatura globale, noto come piccola era glaciale. “Le prove di un collegamento tra la storia climatica della Terra e l’attività solare sono talmente marcate che non è più impossibile ignorarle”, dice adesso Jasper Kirkby portavoce del progetto “Cloud”. E aggiunge: “Se le variazione nel Sole sembrano condizionare il clima terrestre, il meccanismo con cui ciò avviene, però, non è noto. Scopo di “Cloud” , quindi, è capire attraverso lo studio delle interazioni dei raggi cosmici – le “ceneri” del Big Bang formate perlopiù da protoni, con aerosol e particelle di vapore acqueo in sospensione – se questi fasci energetici possono o meno avere un ruolo nella formazione delle nuvole.

Nell’ultimo secolo, infatti, il vento solare, una pioggia di particelle che si staccano dalla fotosfera e come tanti minuscoli proiettili investono la Terra, ha prodotto un aumento della schermatura contro i raggi cosmici del 15%, con la conseguente diminuzione della copertura nuvolosa”. Ma come si formano le nuvole? Secondo gli scienziati del Cern, quando i raggi cosmici entrano nell’atmosfera, sottraggono elettroni ai gas circostanti, lasciando una scia di molecole cariche, gli ioni. È attorno a questi ioni che si aggregano poi alcune particelle di aerosol, fino a formare dei nuclei di condensazione, che, legando in successione molecole d’acqua, generano le nuvole. Un processo che ora, a Ginevra, gli studiosi cercheranno di replicare in una camera di tre metri di diametro, utilizzando al posto dei raggi cosmici un fascio di particelle generato da un sincrotrone. “Il vantaggio di questo esperimento rispetto alle tradizionali osservazioni atmosferiche – precisa Kirkby – è che potremo per la prima volta controllare il flusso dei raggi cosmici e ciò che succede nella camera, osservando in dettaglio le tappe del processo. Si tratta di un progetto ambizioso ed eccitante, perché la sua natura interdisciplinare unisce specialisti di diverse materie, tra cui fisici dell’atmosfera, chimici, fisici solari e delle particelle. Studieranno il fenomeno da prospettive differenti e quindi le probabilità di successo saranno maggiori”

Articolo tratto da “LA STAMPA”, scritto da Davide Patitucci.