Archivi giornalieri: 1 Giugno 2010

Storia del Clima Europeo con riferimento a quello Valdostano (Prima Parte)

L’allarme del IPCC

Da alcuni anni a questa parte le variazioni climatiche sono diventate oggetto di preoccupato interesse da parte dei mas-media e dell’ opinione pubblica. Grande impatto ha avuto la diffusione di modelli computerizzati di simulazione climatica proposti dall’Intergovemental Panel on Climate Change (IPCC), ente creato dall’ONU nel 1988 per studiare l’attuale cambiamento climatico. Allarma il fatto che per la prima volta nella storia del Pianeta, nel corso del XX secolo l’uomo, a causa dell’industrializzazione, dei trasporti e dei riscaldamenti è giunto a produrre un inquinamento atmosferico tale da modificare la composizione chimica dell’aria.

Nell’atmosfera vengono immessi grandi quantità di gas provenienti dalla combustione di carbone e petrolio utilizzati per produrre energia. Questi gas, fra cui vi è l’anidride carbonica (CO2), hanno il potere di intercettare il calore oscuro irradiato dalla superficie terrestre dopo il tramonto del sole; per questa loro proprietà simile all’effetto dei vetri di una serra, vengono detti “gas serra”. Essi, ostacolando il raffreddamento notturno che dovrebbe equilibrare la temperatura atmosferica, provocano un progressivo aumento di calore. Gli scienziati dell’IPCC attribuiscono a questo meccanismo la causa essenziale dell’attuale fase di riscaldamento e per il futuro prevedono un continuo aggravarsi della situazione, dato l’attuale trend di sviluppo tecnologico e demografico. L’aumento esponenziale della CO2 porterebbe ad una sempre maggiore intensità dell’effetto serra con un conseguente progressivo riscaldamento climatico accompagnato da apocalittici sconvolgimenti degli attuali equilibri idrologici ed ecologici .

L’effetto serra è certamente una realtà ma è noto che fra i gas presenti nell’aria il maggior responsabile è il vapor acqueo che si produce spontaneamente in natura; l’incremento dell’anidride carbonica dovuta alle attività umane certamente altera un equilibrio pre-esistente, ma in quale misura? Nel mondo scientifico il dibattito su questo interrogativo è assai vivace; molti sono gli esperti che ritengono non corretto basare unicamente sull’incremento dell’anidride carbonica le simulazioni computerizzate della futura evoluzione dell’ambiente.

L’inquinamento prodotto dall’uomo è certamente un grave danno ecologico con effetti pesantemente nocivi su tutti gli organismi viventi e come tale deve essere combattuto con il massimo impegno. Ma il riscaldamento climatico globale molto probabilmente ha origini diverse.

Meteorologia e Climatologia sono due scienze complementari ma la prima richiede un approccio mentale analitico, la seconda sintetico. La Meteorologia analizza il “tempo che fa” ossia i fenomeni atmosferici attualmente in atto; la Climatologia riflette sulla interazione che in lunghi periodi si instaura fra i diversi fenomeni atmosferici e come questa interazione si rifletta sull’ambiente influenzando gli aspetti del paesaggio e le attività delle popolazioni.

Le cause delle variazioni climatiche per ora sfuggono all’indagine scientifica; molti fatti però tendono a collegarle alla circolazione atmosferica generale che sarebbe responsabile del movimento delle grandi masse d’aria, le une più calde, le altre più fredde, posizionate in diverse zone del Pianeta.

Clima e ghiacciai

La Climatologia non dispone di strumenti capaci di registrare l’interagire dei diversi elementi atmosferici in lunghi tempi ma il clima proprio di ciascuna regione geografica si evidenzia nella natura e nell’aspetto del manto vegetale spontaneo e nel comportamento dei ghiacciai.

La valle d’Aosta è un vero e proprio museo di climi grazie al suo territorio grandemente esteso in altitudine ed ha attualmente più di 200 ghiacciai che si espandono su una superficie di circa 135 chilometri quadrati. Studiando nei vari periodi lo spostamento in altitudine dei limiti climatici dei grandi insiemi vegetali (i coltivi, i boschi e i pascoli) e l’evoluzione degli apparati glaciali possiamo agevolmente ricostruire la storia del clima e di conseguenza anche quella dell’ambiente e delle attività umane che in esso hanno avuto vita.

Da una ventina di anni a questa parte i ghiacciai valdostani sono entrati in una accentuata fase di contrazione, come pressoché tutti quelli delle Alpi e delle altre catene montuose del mondo. È la conseguenza del riscaldamento globale.

Le variazioni glaciali sono strettamente legate a quelle del clima in quanto il ghiaccio di ghiacciaio altro non è che neve trasformata. Nelle zone più alte, ove la temperatura è pressoché sempre sotto lo zero, si formano i bacini di alimentazione; qui la neve che si accumula di anno in anno si trasforma lentamente in ghiaccio a causa della progressiva compressione. La massa glaciale a poco a poco scivola verso valle alimentando i bacini ablatori, vale a dire le parti degli apparati che, essendo poste a quote inferiori a quella del limite climatico delle nevi perenni, sono sedi di processi di fusione.

Quando il clima è freddo e nevoso il limite climatico delle nevi perenni è relativamente basso, nei bacini di alimentazione si raccoglie molta neve e si forma più ghiaccio di quanto ne fonda nei bacini ablatori: i ghiacciai entrano allora in fase di espansione aumentando di lunghezza e di volume. Se invece il clima si riscalda o le nevicate si fanno meno copiose, il limite delle nevi si innalza provocando contemporaneamente una minore produzione di ghiaccio e un più intenso processo di fusione; di conseguenza i ghiacciai entrano in fase di contrazione lineare e volumetrica. È appunto quanto sta accadendo in questi due ultimi decenni .

Il monitoraggio dei ghiacciai effettuato dai primi decenni del XX° secolo dal Comitato Glaciologico Italiano e dal 2002, per quelli valdostani dalla Cabina di Regia dei ghiacciai della Fondazione Montagna Sicura, evidenzia dati preoccupanti: negli ultimi venti anni le lingue vallive dei ghiacciai più grandi si sono raccorciate di diverse centinaia di metri e ancora più grave è la riduzione volumetrica degli apparati messa in luce da bilanci di massa fortemente negativi i quali indicano che la quantità di neve accumulata nella stagione fredda è molto inferiore alla quantità di ghiaccio che fonde in quella calda.

Il comportamento dei ghiacciai quindi conferma il riscaldamento climatico globale.

In base ai dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale si constata che negli ultimi centocinquanta anni la temperatura media sulla Terra è cresciuta di circa 0,7 °C; nella zona alpina l’aumento è alquanto maggiore giungendo a circa 1 °C. Sono valori piuttosto modesti ma le conseguenze si prospettano preoccupanti soprattutto se si accertasse che l’attuale riscaldamento è conseguenza dell’attività umana e che di conseguenza il suo trend sarebbe destinato non soltanto a proseguire nel futuro ma addirittura ad ingigantirsi.

Qualcuno considera addirittura l’attuale accentuato ritiro dei ghiacciai come un sintomo di esser giunti al punto di non ritorno!

Uno studio serio e sistematico delle variazioni glaciali e delle variazioni climatiche ci porta a considerazioni assai meno allarmistiche.

Prima di tutto i vent’anni di osservazioni su cui si basano i modelli computerizzati dell’IPCC sono assolutamente troppo pochi per ritenere di aver colto i fattori di fenomeni tanto complessi quali sono le variazioni climatiche le quali si svolgono sempre in periodi di tempo plurisecolari.

Se – come richiesto dalla climatologia – prendiamo in considerazione l’intero XX secolo, ci troviamo immediatamente di fronte a fasi di espansione glaciale, che, ovviamente si effettuarono in concomitanza di periodi caratterizzati da un clima fresco e nevoso, chiaramente documentato dai dati dell’osservatorio meteorologico del Gran San Bernardo e da quelli di molti altri sparsi in tutto il mondo:

Eppure fin dai primi decenni del ‘900 l’industrializzazione dell’Euro-pa Occidentale era notevolmente sviluppata e si basava prevalentemente sull’uso di grandi quantità di carbon fossile. Le emissioni di CO2 fin da allora erano considerevoli eppure i ghiacciai alpini una prima volta fra il 1910 e il 1923 e una seconda fra il 1960 e il 1985, (quindi nella immediata vigilia dell’attuale episodio di riscaldamento) aumentarono grandemente di volume e allungarono le lingue vallive di diverse centinaia di metri.

Questi due periodi freschi e nevosi verificatisi in piena era industriale ci pongono di fronte a un interrogativo di base: in quale misura i processi climatici possono essere influenzati dall’azione umana?

Ottomila anni di variazioni climatiche in Valle d’Aosta

Rigorosi studi di climatologia storica la giovane disciplina che Emanuel Le Roi Ladurie definì “Le nouvel domaine de Clio”, ci portano a riconoscere nel corso degli ultimi 8000 anni, numerose variazioni climatiche, tutte di durata plurisecolare.

Le specifiche ricerche si valgono di studi sui sedimenti marini e continentali, sulle oscillazioni del livello marino, sulle variazioni lineari e volumetriche dei grandi ghiacciai, sui pollini fossili; sui cerchi di accrescimento di alberi plurisecolari. Le più avanzate metodologie permettono di correlare gli isotopi dell’ossigeno presenti nei sedimenti o nel ghiaccio antico dei grandi ghiacciai, con le condizioni termiche del momento in cui è avvenuta la sedimentazione o si è formato il ghiaccio. Nello stesso modo, la dendrocronologia, mediante lo studio dei rapporti fra gli isotopi dell’ossigeno, del carbonio, e dell’azoto che costituiscono la sostanza legnosa di tronchi millenari, può valutare la temperatura che caratterizzava il periodo in cui andavano formandosi i singoli cerchi di accrescimento. Il radiocarbonio permette oggi di datare i resti organici per cui con la collaborazione di tutte queste ricerche è stato possibile, ormai da qualche decennio conoscere con ragionevole sicurezza le caratteristiche cronologiche del clima negli ultimi 8000 anni, malgrado che solo dalla fine del XVIII secolo si disponga di misure strumentali di temperature e di precipitazioni.

D’altra parte sul territorio valdostano e in tante altre parti del mondo sono rimaste testimonianze che mal si accordano con l’ambiente climatico attuale come il ritrovamento di antichi ceppi di conifere centinaia di metri più in alto dell’attuale limite climatico del bosco.

L’archeologia scopre che l’Aosta romana fra il I e il V secolo d.C. era una città popolosa, dalla vita elegante e raffinata. Ma – ci chiediamo – donde poteva venire il reddito capace di sostenere l’alto tenore di vita che l’archeologia ci attesta?

Nei duemila anni di storia valdostana si alternano momenti fulgidi e momenti oscuri; i primi si accompagnano regolarmente a intensi traffici attraverso gli alti valichi, i secondi al languire di questa attività. È ovvio però chiedersi come potessero fiorire i traffici transalpini se solo fra fine giugno e il principio di ottobre i valichi del Piccolo San Bernardo (2180 m) e del Gran San Bernardo (2470 m) fossero stati allora liberi dalla neve come accade oggi. È noto infatti che le carovane someggiate non possono transitare su strade innevate ma gli attuali tre mesi estivi sono un periodo di attività annuale troppo breve per spiegare la grandiosità dell’Aosta romana e di quella medioevale, la “pulcelle” dei Conti e Duchi di Savoia fra il XII e il XVI secolo. Qualche cosa di fondamentale deve essere cambiato nel lungo arco di tempo della nostra storia.

Oggi sappiamo che è cambiato il clima, che più volte si sono verificate variazioni climatiche di durata plurisecolare, tali da mutare l’ambiente e influenzare profondamente la vita e l’attività delle popolazioni.

Si è accertato che trattasi di variazioni di temperatura e di piovosità che possono apparire minimi: da uno a quattro gradi centigradi delle temperature medie annue e di un 20% o 30% della quantità di precipitazioni. Ma se le precipitazioni annue per qualche decina di anni da una media di 700 mm si riducono a 500 mm, mettono in crisi l’agricoltura, mentre ne aumentano il rendimento se si accrescono a 900 mm. Una nevosità più o meno abbondante sui valichi determina un periodo più o meno lungo di fruizione delle alte vie transalpine con conseguenze economiche e sociali di grande importanza. Una variazione di temperatura di due gradi centigradi, se si protrae per qualche decennio, sposta di circa 300 metri di altitudine i limiti climatici delle colture, dei boschi dei pascoli e delle nevi perenni. Una variazione “fredda” di quella entità può privare di risorse alimentari le popolazioni che vivono sul limite climatico delle colture mentre, al contrario una variazione “calda” può migliorare grandemente il loro ambiente di vita.

Fine Prima Parte

André Roveyaz

3° mese consecutivo che chiude sotto a febbraio!

Il SN di Febbraio 2010 ancora non è stato superato, e dopo marzo ed aprile, si aggiunge anche maggio che secondo i miei calcoli termina a 8.7 (nel corso della giornata uscirà il resoconto mensile del sidc che solitamente, guarda caso, alza sempre il SN rispetto alla somma dei singoli giorni che io eseguo ogni sacrosanto dì!)

Per il Noaa invece il mese chiude a 19.9, ma qui preferisco non commentare e stendere un bel velo pietoso…

La media mensile provvisoria del solar flux aggiustato si attesta a 75.41, valore più basso di quello di aprile che era di 76.24, ed anche da questo si intuisce facilmente che sia Sidc che Noaa in questo mese di maggio hanno esagerato i loro conteggi, a dir il vero il Sidc non proprio in maniera vergonosa, mentre il Noaa è davvero incommentabile!

http://daltonsminima.wordpress.com/dati-sole-in-diretta/

Ma noi da poco tempo abbiamo il nostro conteggio che riporta le cose a posto, così guarda caso, seguendo le semplici regole del Nia’s count, magicamente maggio chiude sotto ad aprile e cioè 3.2 contro 3.8, rendendo così giustizia al calo del flusso solare registrato nel mese appena trascorso, dimostrando quindi di aver trovato la giusta formula per garantire la continuità col passato, e di questo ringrazio nuovamente Fabo e Luca che lo hanno reso possibile!

http://daltonsminima.wordpress.com/nias-sunspot-number/

Inoltre l’ area delle regioni solari è in netta fase di decrescita rispetto ai mesi di gennaio, febbraio e prima parte di marzo, e ciò ovviamente va di pari passo al costante calo del solar flux. Con maggio, sono 4 i mesi in cui il flusso solare dopo aver raggiunto e superato la media mensile di 80, non è ancora decollato a 100, ma anzi come già esposto, sta continuando a calare progressivamente. Questo è importante perchè da quando lo si misura, il solar flux ci bada circa 5-6 mesi prima di arrivare a 100 una volta che ha raggiunto la media di 80! Staremo a vedere!

Vi lascio con un semplice grafico in cui si mettono a confronto i dati Sidc con quelli del Nia’s count dei primi 5 mesi del 2010:

fig.jpg

Quelli del Noaa li ho volutamente omessi, tanto hanno dimostrato di valere meno che 0!

A più tardi per eventuali aggiornament!

Simon

Update:

maggio chiude a 8.8 per il sidc:

http://sidc.oma.be/products/ri_hemispheric/