Archivio mensile:Gennaio 2013

Facciamo un po’ di chiarezza 2: dinamiche di interazione tropo-stratosferiche

Preso atto dello stato generale di confusione che circola in merito alle dinamiche di interazione tropo-stratosferica nella stagione invernale, il nostro lavoro si propone di fare chiarezza gettando così le basi per un ampliamento delle conoscenze sulle dinamiche atmosferiche (in questo senso saranno ben accette eventuali proposte di lavoro da chiunque voglia collaborare).

Per meglio comprendere i meccanismi di propagazione d’onda planetaria è bene soffermarci e fare una breve digressione sulle leggi fisiche che descrivono le principali strutture della circolazione generale dell’atmosfera e chiarire concetti come onda di rossby e bilancio geostrofico.

La principale caratteristica di una particella d’aria nella libera atmosfera, in assenza di attriti/barriere orografiche, è rappresentata dall’avere un moto pressochè orizzontale (moti quasi piani). Questo dipende dal fatto che lo  spessore della colonna d’aria atmosferica, sia in rapporto allo sviluppo longitudinale che verticale della Terra, è molto esiguo e pertanto  la scala orizzontale dei moti è molto più grande della scala verticale. Da ciò scaturisce un’importante conseguenza ovvero che si può assumere una pressione idrostatica anche quando il fluido è in moto e quindi considerare che il gradiente di pressione orizzontale tra due punti non dipende dalla coordinata verticale. Per questa ragione, ed anche per semplificare la restituzione grafica, sulle mappe dei modelli la coordinata verticale viene espressa in coordinate isobariche (come pressione ad una certa quota) piuttosto che in termini di densità.

La causa per la quale il vento soffia sempre parallelamente alle isobare risiede nell’equilibrio geostrofico ovvero l’accelerazione che subisce una particella dovuta al gradiente di pressione tra due punti, che tenderebbe a spostarla sulla retta che li unisce, a causa della rotazione terrestre, la forza di Coriolis, proporzionale alla velocità del corpo in moto, agisce deviando la particella  verso destra senza modificarne la velocità.

 

Forza di Coriolis è pari= 2uΩsinФ

u e’ la velocità della particella di fluido considerata

Ω e’ la velocità angolare della Terra (7.29*10-5 s-1 ),

Ф è la latitudine.

In genere la grandezza [b]2ΩsinФ chiamata parametro di Coriolis viene indicata con la lettera  f.[/b]

La forza di Coriolis e’ massima al polo (Ф = 90°, sin Ф = 1) ed e’ nulla all’equatore (Ф = 0, sinФ =0).

 

La forza di pressione invece è la forza che si manifesta per effetto delle differenze di pressione che esistono nell’ambito di un fluido . La forza di pressione per unita’ di massa si esprime nel modo seguente:

Fp =  – (1/ρ). (D(p)/Dy)

Ρ è la densita del fluido

(D(p)/Dy) è la differenza di pressione tra due punti

La velocità orizzontale per la quale la forza di Coriolis bilancia esattamente la forza orizzontale di pressione, si chiama “vento geostrofico”.

Fc + Fp = 0

ovvero

2uΩsinФ =  -(1/ρ) (Dp/Dy)

[b]u = -(1/ρf) (Dp/Dy)

Da questa equazione si comprende come le velocità zonali sono strettamente legate alle variazioni di pressione e la sua componente, moti quasi piani, è parallela alle isobare.[/b]

Tuttavia la fluidodinamica ci ha sperimentalmente mostrato che i fluidi viscosi in rotazione con indotto  un gradiente termico periferia- centro di rotazione, tendono ad assumere moti ondulatori con spettri di frequenza e gradi di turbolenza dipendenti sia dal gradiente termico, sia dalla velocità angolare di rotazione. Quando a causa di una  simile  perturbazione una particella si porta a più a nord di latitudine accade che in riferimento ad essa il  parametro f di Coriolis, che risulta proporzionale al seno della latitudine, tende ad aumentare. Se f aumenta, affinchè la vorticità assoluta si conservi, deve simultaneamente verificarsi una diminuzione della vorticità relativa. In altre parole la curvatura della linea di corrente diviene anticiclonica. In maniera del tutto simmetrica, se la particella d’aria scende f diminuisce e per compensare detta diminuzione la vorticità relativa deve aumentare facendo divenire ciclonica la linea di corrente. Ciò rende possibile la formazione di un treno di onde in seno alla corrente occidentale, note come onde di Rossby.

Queste onde quindi, per effetto della variazione del gradiente termico tendono ad assumere un pattern ondulatorio. Se poi introduciamo elementi perturbatori come imponenti catene montuose trasversali alla circolazione zonale ed il continuo alternarsi di terre ed oceani, allora si può intuire come queste oscillazioni possano essere più facilmente promosse e dunque influenzare in modo importante ampie zone della superficie terrestre. Sono infatti le oscillazioni del getto connesse alle onde di Rossby che consentono all’aria polare di scendere di latitudine provocando quindi un globale trasferimento di energia dalle basse alle alte latitudini.

Arrivati a questo punto è importante focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali:

1)            per quanto detto, l’attività e l’importanza delle onde di Rossby tende ad aumentare con l’incremento degli elementi perturbatori in grado di innescarle. A questo proposito nell’emisfero settentrionale, in virtù della particolare dislocazione delle terre emerse e del gran numero di importanti catene montuose, è molto più frequente la formazione di grosse onde in grado di veicolare ingenti masse d’aria polare verso sud.

2)            le onde più energetiche responsabili delle discese polari più importanti e durature sono quelle stazionarie. Esse infatti, proprio in virtù della loro stazionarietà, riescono a bloccare per lungo tempo la normale circolazione westerly, favorendo movimenti meridiani o retrogradi delle masse d’aria di origine polare.

3)            le onde, per ragioni legate alla conservazione della quantità di massa, possono divenire stazionarie solo al di sopra degli oceani. Per questa ragione le onde principali sono l’onda pacifica (wave 1) e l’onda atlantica (wave 2).

I movimenti iniziali che portano ad un deciso disturbo del Vortice Polare (VP), sono legati sempre ai fenomeni di propagazione dell’onda planetaria più importante, ovvero l’onda asiatico-pacifica (wave 1). La genesi dell’onda nonché le cause che influenzano la sua attività sono state già ampiamente discusse nel  nostro precedente articolo:

http://www.meteoforumme.it/forum/analisi-e-previsioni-meteo/facciamo-un-po-di-chiarezza/

Quando si sviluppa un onda stazionaria sul pacifico (PNA+), il getto  tende ad invadere il comparto americano impattando le montagne rocciose: tale dinamica innesca una un ondulazione nel getto, che in “alcuni frangenti” nella successiva rotazione può divenire stazionaria sul comparto atlantico (NAO-), bloccando la normale circolazione zonale ed innescando una discesa d’aria polare sull’Europa. È chiaro quindi che per poter interpretare con tali movimenti, bisogna aver compreso il concetto di stazionarietà dell’onda.

A tale scopo partiamo da una formula ben nota in letteratura che consente di ricavare la lunghezza delle onde stazionarie a partire dal valore della velocità media zonale U:

V = U – K•L2                                        (1)

dove:

             V è la velocità con cui l’onda tende a traslare seguendo la normale circolazione westerly;

             U è la componente media verso ovest delle correnti occidentali (flusso zonale);

             K è il parametro di Rossby determinato dalla  seguente relazione:.

K = (ω•cosf)•(1/2•p•R2)                  (2)

In cui w è   la velocità angolare della terra (pari a 7,2685•10-5rad/s),  R = 6480 Km è il raggio terrestre e f la  latitudine  di riferimento per la quale si vuole effettuare il calcolo.

Dalla (1) si può facilmente constatare che, a parità di U, la velocità V di traslazione delle onde di Rossby decresce fortemente al crescere della loro lunghezza d’onda  e che quindi le onde corte sono più veloci di quelle lunghe. Le onde stazionarie, come dice la parola stessa, si hanno se la velocità di propagazione V è nulla (V = 0). Imponendo tale condizione  ed invertendo la formula,  si riconosce che un’onda è stazionaria se la lunghezza d’onda L assume il valore critico (lunghezza critica) dato da:

Lc = (U/K)½                                            (3)

 

Da questa si vede chiaramente che all’aumentare della velocità zonale media U aumenta la lunghezza e  dunque il livello di energia che l’onda deve possedere per risultare stazionaria.Il meccanismo di propagazione d’onda non è bidimensionale in quanto le onde si propagano sempre anche sulla verticale. Poiché durante l’inverno la struttura del Vortice Polare (VP), caratterizzata da un gradiente termico negativo e da una circolazione westerly più intensa alle quote progressivamente maggiori, si estende sino in prossimità della stratopausa, le onde più energetiche si propagano sino in alta stratosfera. Poiché come visto, le onde più energetiche sono anche le più lunghe, la propagazione verticale è strettamente correlata alla lunghezza e al numero di onde in azione (wavenumber): all’aumentare di tale parametro diminuisce infatti la media delle onde e dunque la loro capacità di divenire stazionarie e propagarsi ai livelli superiori dell’atmosfera. Viceversa, poiché la lunghezza critica dell’onda stazionaria Lc è proporzionale all’intensità  U delle correnti zonali (vedi formula 3), affinchè un onda più corta (e dunque meno energetica) riesca  a propagarsi verticalmente le velocità zonali devono essere mediamente più basse (e quindi diminuisce la velocità critica di propagazione Uc). Da ciò si capisce che il wavenamber è una mera conseguenza che descrive semplicemente il livello di disturbo che il vortice subisce e che dipende dall’attuale livello energetico delle onde e dall’intensità delle correnti zonali stesse.

Fissati questi concetti di base, possiamo andare oltre introducendo il ben noto fenomeno dello stratwarming. L’obiettivo è quello di capire la reale genesi di questo affascinante fenomeno nonché la sua reale capacità di condizionare le dinamiche atmosferiche.

Gli stratwarming altro non sono che improvvisi riscaldamenti stratosferici conseguenti ai meccanismi di propagazione ed infrangimento delle onde planetarie. Quando un’onda planetaria raggiunge la stratosfera, deposita il suo momento esterly, decelerando la corrente a getto stratosferica invernale che come detto è westerly: la deposizione di quantità di moto est nella stratosfera polare (“breaking wave”), produce per attrito l’improvviso fenomeno del riscaldamento. Da ciò si deduce che in nessun caso lo stratwarming è un fenomeno a se stante in grado di favorire episodi di gelo alle medie latitudini, ma una semplice conseguenza dell’azione intrusiva delle onde planetarie nel vortice polare invernale. Al contrario si può certamente asserire che il verificarsi degli stratwarming costituisce un passo fondamentale per le sorti dell’inverno europeo, con riferimento soprattutto alla fase più importante della stagione invernale (da metà gennaio in poi).Cerchiamo di capire insieme il perché di questa affermazione.

Durante la stagione autunnale, a causa della scomparsa della radiazione solare sul polo, anche in stratosfera tende ad invertirsi il gradiente termico e ad  instaurarsi quindi una circolazione di tipo westerly, con conseguente formazione del Vortice Polare Stratosferico. In questa fase, molto delicata, si verifica quasi sempre un certo disaccoppiamento (tale fenomeno molto importante sarà oggetto di future trattazioni) tra circolazione troposferica e circolazione stratosferica, in quanto i disturbi (che hanno origine in troposfera) non possono propagarsi sino alle quote superiori. All’inizio della stagione invernale il VP si presenta come una struttura unica, che si estende dalla troposfera sino al limite superiore della stratosfera (anche se può permanere una certa disomogeneità nelle caratteristiche fisico-termidinamiche tra le varie “sezioni” verticali). In questa fase il Vortice, soprattutto nella sua porzione medio alta,  tende ad approfondirsi raggiungendo l’apice della sua intensità. Contemporaneamente però, a partire dal comparto asiatico (hp siberiano e catena dell’Himalaya), cominciano a partire i primi disturbi che si traducono nella formazione delle prime onde ad alto livello energetico.

Queste, in un contesto  di velocità zonali molto elevate ed in via di approfondimento, non possiedono le caratteristiche (lunghezza ed energia) tali da consentire una completa  propagazione sino alle quote più elevate. Pertanto tali onde, non avendo i requisiti di stazionarietà, tendono ad infrangersi  rapidamente alle quote medio-basse e ad essere traslate molto velocemente sul settore canadese, generando i primi Canadian Warming (CW) della stagione.  Tale fenomeno si traduce successivamente in una fase DA+ che comporta un rafforzamento del getto in atlantico ed una nuova migrazione dei centri di vorticità  verso  l’Eurasia.

Il nuovo e più forte  impatto del getto (per conservazione del momento angolare) con il continente asiatico porta alla formazione di una nuova onda Pacifica, più energetica della precedente. A tal proposito il livello energetico di un onda è “proporzionale” alla veemenza con  cui il getto impatta l’elemento perturbante all’atto della sua formazione (è ovvio che in questo senso gioca un ruolo fondamentale l’estensione dello snow cover/hp siberiano da cui il famoso predictor di Cohen) .Detta dinamica si conclude quando riesce finalmente ad innescarsi un onda altamente energetica in grado di presentarsi stazionaria sul Pacifico ad ogni livello isobarico:  tale circostanza produce un riscaldamento stratosferico che in alcuni casi può raggiungere anche notevole intensità a partire dalle quote più elevate (MMW). A prescindere dalle rare ripercussioni dirette ed istantanee della dinamica che porta a detto riscaldamento (si parla di ripercussioni della dinamica e non del riscaldamento in quanto anch’esso è una mera conseguenza), essa segna sempre un passaggio fondamentale per le sorti della fase successiva della stagione. Si parla in questo caso di condizionamento da Major Warming, che nei casi più eclatanti può durare per un periodo molto lungo. Per avere un quadro completo sulla funzione degli MMW, occorre quindi analizzare nel dettaglio questi due fattori:

 

1)            genesi ed eventuali ripercussioni immediate degli MMW;

2)            condizionamento da  post-MMW.

 

1) Genesi ed eventuali ripercussioni immediate degli MMW

È ovvio che solo nei casi di MMW di tipo split si può parlare di eventuali ripercussioni sul comparto europeo. Tuttavia anche nei casi di riscaldamenti stratosferici molto intensi di tipo split, risulta molto difficile un interessamento diretto dell’Europa. Cerchiamo di capire il perché di questa affermazione. Come detto le eventuali ripercussioni “dirette” degli MMW sul continente Europeo dipendono solo ed esclusivamente dalla particolare tipologia della dinamica che innesca il riscaldamento stratosferico  stesso. Senza entrare troppo nel dettaglio, quando si hanno  particolari condizioni iniziali (si rimanda al precedente articolo), la wave 1 si presenta da subito altamente energetica ed in grado di assumere caratteristiche di forte stazionarietà nonostante l’elevata intensità delle velocità zonali.Tralasciando qualsiasi discorso in merito alle cause (già ampiamente discusse), quello si vuole sottolineare, è il grado di eccezionalità dell’evento in esame. Difatti per assumere carattere stazionario a tutte le quote in concomitanza del solstizio d’inverno (momento della stagione in cui le velocità zonali raggiungono mediamente la loro massima intensità), l’onda deve risultare altamente energetica e raggiungere dimensioni considerevoli. Per avere un idea di quanto stiamo dicendo facciamo un esempio pratico, prendendo in esame proprio l’evento stratosferico di quest’anno.

Assumiamo come riferimento il 4 gennaio 2013 (la scelta è stata obbligata dal materiale a disposizione, in quanto sarebbe stato più opportuno riferirsi a qualche giorno prima). Dal grafico Reading possiamo agevolmente risalire all’entità delle correnti zonali medie riferite ad una latitudine di 60° e ad una quota di 10hPa:

A partire da questo valore della velocità zonale (U=19.2 m/s), sfruttando la precedente relazione sulla stazionarietà dell’onda (3), possiamo ricavare la lunghezza che l’onda pacifica doveva possedere per risultare stazionaria alla quota di 10 hPa. Infatti sapendo che per la latitudine di riferimento f=60°  il parametro K di Rossby  vale 2,841•10-10 km•s, con un rapido calcolo si ricava una lunghezza d’onda L pari a ben 8224 Km. Ed ecco l’immagine che ritrae l’onda dalla quale è stato possibile verificare, dopo essere stata opportunamente scalata, la correttezza del nostro calcolo:

In questo modo appare in maniera molto chiara il livello di eccezionalità di un simile fenomeno. In un contesto di velocità zonali ancora molto elevato, l’onda, per riuscire a propagarsi sino alle quote superiori e risultare dunque stazionaria, raggiungere alle quote più elevate lunghezza importantissime (ricordiamo che le velocità zonali, per riduzione della viscosità dell’aria, aumentano all’aumentare dell’altitudine).

Ora è di fondamentale importanza sottolineare che proprio una notevole  lunghezza dell’onda  pacifica (wave 1) costituisce la genesi di un evento di tipo MMW split. Difatti, come testimoniano gli stessi vettori ep-flux,  un onda estremamente lunga impiega svariati giorni prima di iniziare a divenire convergente sul polo ed il tempo che intercorre dal momento della sua formazione sino alla sua completa intrusione risulta molto esteso. Mano mano che l’onda tende a divenire intrusiva le velocità zonali diminuiscono (per fenomeni di attrito da cui si sviluppa il calore) e l’onda stessa tende a divenire più corta.  Durante questo lungo periodo il Vortice tende progressivamente a disporsi in assetto ellittico, portando alla conseguente attivazione e propagazione dell’onda atlantica, che si genera proprio dall’ “impatto” del getto con il continente americano (montagne rocciose in particolare). Tuttavia in questa fase, poiché le velocità zonali (soprattutto alle quote medio-basse) risultano ancora molto elevate, anche l’onda atlantica per divenire ben stazionaria (presupposto fondamentale per assistere ad una lunga fase  antizonale sull’Europa),  deve risultare altamente energetica e raggiungere notevole lunghezza. Pertanto se l’asse iniziale (all’atto dell’innesco della wave 2) del basso VP risultasse anche di poco sfavorevole, l’onda atlantica non riuscirebbe ad acquisire quell’elevato  livello di energia necessario per raggiungere la completa stazionarietà in un simile contesto, ed il flusso zonale atlantico riuscirebbe a ripartire “abbastanza” rapidamente.

Da ciò scaturisce l’elevatissimo periodo di ritorno (bassissima probabilità) di un evento gelido in concomitanza di un MMW: già di per se l’MMW split è un evento molto raro (la formazione di un’onda pacifica di quella portata nella primissima fase dell’inverno non è cosa da tutti i giorni) e la probabilità che in contemporanea si inneschi una lunga fase antizonale in troposfera (legata come visto al carattere della wave 2) scende ancora di molto.

Studiando invece la  dinamica che porta ad eventi di tipo MMW displacement, si capisce chiaramente come questa  in nessun caso  possa portare a ripercussioni immediate sull’Europa. Anche in questo l’evento è conseguenza diretta dell’innesco di una wave 1 altamente energetica. La differenza principale risiede nella tempistica e nella “fase preparativa” all’evento stesso:  quando l’onda si sviluppa in una fase più avanzata della stagione in un contesto di velocità zonali più ridotte (il VP è stato già disturbato da più Canadian Warming  e/o  Upper warming), la wave 1 stazionaria presenta un’estensione (lunghezza) decisamente più ridotta rispetto al caso precedente. Per tale ragione essa tende a divenire convergente in maniera molto più rapida, non permettendo la propagazione dell’opposta onda atlantica. In questo caso l’antizonalità rimane confinata solo alle quote medio alte, dove l’onda ha una maggiore estensione ed è in grado di invertire da sola la circolazione westerly del vortice. 

Da tutto questo si capisce come non esiste alcuna propagazione di calore e circolazione esterliess dall’alto verso dal basso in quanto si parla solo di un preciso meccanismo legato alle dinamiche di propagazione e successivo infrangimento d’onda.

 

2) Condizionamento da post MMW

Le conseguenze dei riscaldamenti stratosferici (in particolare MMW) si hanno nella fase successiva all’evento stesso. Tale fenomeno, noto come condizionamento da Eses warm, può arrivare ad assumere caratteristiche di eccezionalità nei casi più eclatanti.

Cerchiamo di capire insieme il perché di questa fenomenologia che è alla base della ben nota legge statistica di D&B. In seguito all’avvento di un forte disturbo stratosferico il vortice polare si presenta fortemente destabilizzato a partire dalle quote medio alte (abbattimento delle velocità zonali). Per quanto visto in precedenza, in un simile contesto, le onde planetarie riescono a propagarsi e a divenire stazionarie con estrema facilità (la lunghezza critica decresce fortemente al diminuire delle velocità zonali medie).

Tale situazione favorevole, che è causa delle più intense e durature ondate di freddo, può protrarsi molto a lungo in seguito ai fenomeni stratosferici più intensi. Difatti a seguito di un forte warming si genera una condizione di disquilibrio sull’intera colonna d’aria: nel tentativo di ripristino dell’equilibrio radiativo (per mancanza della radiazione solare non ancora arrivata sul polo), a partire dall’alta stratosfera inizia rapidamente un processo di raffreddamento. Il raffreddamento dell’aria è accompagnato da movimenti di affondamento, in quanto l’aria più fredda e più densa tende a scendere verso il basso . L’aria più fredda discendente si riscalda per compressione adiabatica, portando le temperature nella medio-bassa stratosfera polare a diverse decine di gradi sopra l’equilibrio radiativo locale, contribuendo a mantenere il medio-basso VP instabile per un lungo periodo di tempo. Tra l’altro, come già spiegato nel precedente articolo, tale meccanismo è strettamente correlato all’incremento dell’attività convettiva equatoriale (rafforzamento della MJO):  difatti l’aria discendente nella regione polare, per conservazione della massa, deve  essere bilanciato da un flusso d’aria in ascesa sulle zone tropico-equatoriali. La BDC costituisce proprio questa cella circolatoria  in cui l’aria tropicale muove verso i poli per sostituire l’aria discendente ai poli.

Pertanto a riguardo si conclude dicendo che i warming non sono nient’altro che il risultato più estremo dell’attività delle onde planetarie che, a differenza di quanto accade nell’emisfero australe, riescono a rallentare ed in alcuni casi a bloccare la forte circolazione westerliess del vp (che riccordiamo estendersi in inverno fino all’alta stratosfera), consentendo così lo sviluppo di imponenti blocchi antizonali nella successiva fase più importante dell’inverno (metà gennaio in poi).

La trattazione sin qui svolta può trovare un buon riscontro con la situazione attuale (e futura). Difatti in un contesto di velocità zonali molto basse sull’intera colonna (fattore indotto dall’importante dinamica atmosferica di gennaio), l’onda atlantica potrà facilmente propagarsi ed assumere carattere di discreta stazionarietà  (nonostante una lunghezza non eccessiva) comportando , con estrema facilità, un lungo blocco della circolazione zonale sul settore atlantico, con conseguente fase artica sull’Europa dalle caratteristiche retroattive.

Basse velocità zonali per il forte condizionamento post-MMW

Dinamica attuale: innesco della wave 2 in seguito alla stazionarietà dell’onda pacifica

 

Riccardo, Alessandro (even), Cloover

Alcune conferme alle previsioni dei terremoti di Raffaele Bendandi

Questo lavoro, uscito nell’ultima Issue di Dicembre 2012 del gruppo NCGT , è stato redatto nel 2011 da Cristiano Fidani. Contatto per mail Cristiano, mi ha gentilmente segnalato una copia in Italiano.

Cristiano Fidani
Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Perugia

Lo studio di Raffaele Bendandi sui terremoti si basò sulla ricerca dei documenti degli scienziati suoi contemporanei e di ciò che era stato pubblicato nei secoli precedenti. La conferma di questa attività può essere constatata dai testi presenti nella biblioteca della sua casa-osservatorio di Faenza, in via Manara n.17, e nella padronanza divulgativa manifestata dallo scienziato con le numerosissime pubblicazioni che fece su tutti i maggiori quotidiani italiani del secolo scorso. Tuttavia, l’interesse di cimentarsi da autodidatta nelle avventure della scienza nacque con l’astronomia, dove si distinse nei primi anni di studio (1). Sarà l’astronomia a suggerirgli un approccio originale allo studio dei terremoti e, d’altra parte, dall’astronomia avrà le maggiori conferme ai suoi studi pionieristici. Soprattutto, sarà proprio l’astronomia a fargli intravedere un barlume di speranza nella possibilità di evitare le conseguenze di catastrofi immani come quella del terremoto di Reggio e Messina del 1908, dando inizio alle sue ricerche.
A più di vent’anni dal loro inizio, tali ricerche ebbero dei frutti probabilmente inattesi. Dall’interpretazione dell’evoluzione del Sole scaturì l’ipotesi sulla genesi del ciclo undecennale solare, mentre dall’enigma delle stelle variabili nacque l’ipotesi sul legame della loro variabilità con il loro sistema planetario. In questi due campi dell’astronomia Raffaele Bendandi scrisse due libri: il primo intitolato Un Principio Fondamentale dell’Universo: Genesi del Ciclo Undecennale solare, pubblicato nel 1931 (2); il secondo intitolato Un Principio Fondamentale dell’Universo: le Stelle Variabili, scritto immediatamente a ridosso del primo ma solo recentemente pubblicato (3). Il principio che ricorse in queste due pubblicazioni fu lo stesso che portò alla previsione dei terremoti, ma Bendandi non ne rivelò mai la connessione con i terremoti perché sosteneva di non aver ancora risolto il problema del luogo che, a suo parere, sarebbe stato risolto dagli scienziati accademici pregiudicando la paternità della scoperta (4).
Il principio fondamentale consiste nel legame fra la perturbazione, sia essa un terremoto oppure un’eruzione solare, del corpo celeste e lo squilibrio gravitazionale generato dal fenomeno della marea prodotta dagli altri corpi celesti più grandi e vicini a quello considerato. I maggiori risultati ottenuti a partire da questo principio sono tre: la previsione dei terremoti, l’interpretazione del ciclo undecennale solare e della variazione luminosa delle altre stelle. Tali risultati rappresentano anche un modo unitario di vedere tre fenomeni apparentemente distinti, come la manifestazione di un’unica legge su corpi differenti (stelle e pianeti). Gli studi di Bendandi hanno ottenuto delle conferme dalla scienza moderna e la verifica delle sue previsioni costituisce una di queste.

Le prime previsioni dei terremoti e le loro conferme nei cataloghi storici

Sebbene lo studioso abbia ricordato più volte di aver appuntato nel proprio taccuino nel novembre 1914 una forte scossa per il 13 gennaio 1915 (5), e negli anni successivi ricordi di aver effettuato delle prove analoghe che lo aiutarono a perfezionare il suo metodo (6), la prima previsione ufficiale di Bendandi fu quella rilasciata con un atto notarile il 20 dicembre del 1923 (7):

« Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d’Italia. « L’anno millenovecentoventitrè, questo giorno di giovedì Venti Dicembre in Faenza nel mio studio Notarile posto in Corso Garibaldi, n.o 8. Avanti a me dott. Domenico Savini, Regio Notaio residente in Faenza, inscritto al Collegio notarile di Ravenna e alla presenza dei signori Olimpia Careli impiegata e Querzola Edoardo fu Angelo impiegato; ambedue nati e domiciliati a Faenza, assunti come testimoni, noti ed idonei ai sensi di legge, si è personalmente costituito il signor: « Raffaele Bendandi di Angelo, intagliatore in legno, nato e domiciliato a Faenza maggiorenne, di suo pieno diritto, a me notaio cognito, il le mi ha pregato di ricevere nei miei atti la seguente dichiarazione: « Le manifestazioni telluriche in vista da oggi al 10 Gennaio 1924 sono due: « La prima il 21 dicembre, cioè domani stesso di origine americana (centro America). « La seconda invece più importante come intensità, il 2 Gennaio con probabile epicentro nella Penisola Balcanica, o tutt’al più nell’Egeo. « Fatto il presente atto come Brevetto da consegnarsi alla parte, scritto da persona di mia fiducia sotto mia cura e dettatura, viene firmato qui in fine dal sig. Bendandi, dai testimoni e da me Notaio, previa lettura da me data dell’Atto stesso al costituito Signore, il quale ha dichiarato essere il tutto pienamente conforme alla sua volontà. Consta il presente di un foglio di carta legale di cui furono occupate due pagine per intero e linee due della terza.

«F.ti: Raffaele Bendandi; Olimpia Caroli, teste; Edoardo Querzola,
teste; Dott. Domenico
Savini, Notaro in Faenza;
« Registrato a Faenza il 20 Dicembre 1923 Vol. 84 , n.o 485, reg mod 1.
Esatte lire sette e dieci centesimi. Il ricevitore: Suglia.»

Figura 1. Uno dei titoli apparsi nei quotidiani del gennaio 1924
Figura 1. Uno dei titoli apparsi nei quotidiani del gennaio 1924

Le conferme a queste previsioni furono riportate dai quotidiani italiani nei primi giorni del gennaio 1924, vedi Figura 1, secondo queste notizie un terremoto colpì la regione della Sonora il 21 dicembre 1923 e un terremoto colpì la costa marchigiana presso Senigallia il 2 gennaio 1924 (5). Attualmente, la verifica delle previsioni dei terremoti di quel periodo risulta molto difficoltosa a causa della mancanza di strumenti che agli inizi del secolo scorso erano concentrati in pochi paesi. In questo caso la prima scossa non sembra essere stata registrata dagli strumenti della rete messicana e le prime notizie di un terremoto in America Centrale arrivarono da Douglas nello stato di Arizona. La seconda, invece, accadde in Italia dove la realizzazione degli apparecchi per la registrazione delle onde sismiche aveva una lunga tradizione. Anche Bendandi aveva costruito un sismografo nella sua casa osservatorio, proprio per verificare le sue previsioni, e che gli permise di entrare a far parte della società sismologica italiana nel 1920.

Esistono studi scientifici moderni e cataloghi che hanno citato i due eventi importanti verificatisi nel periodo considerato. Il primo terremoto a cui si può far riferimento è quello di Granados – Huàsabas avvenuto nel nord-est della Sonora il 18 dicembre 1923 alle 5 del mattino, vedi Figura 2, con un’intensità che è stata valutata in M=5.7, seguito da un altro evento di magnitudo minore il 19 dicembre 1923 alle 6 del mattino (8). Gli abitanti della vicina Arizona percepirono un tremore alle 21 del 19 dicembre 1923 attribuendo a quel momento l’ora della scossa in Messico (8), cioè il 20 dicembre per l’Europa. Tuttavia la notizia fu trasmessa a Parigi solo il 21 dicembre 1923 e dai quotidiani fu accettata quella data per il terremoto. L’evento si verificò con qualche giorno in anticipo rispetto alla data prevista, ma Bendandi non poteva sapere perché le notizie di questi eventi vennero trasmesse solo il 21 dicembre (7).

Figura 2. 'attività sismica della regione messicana dopo il fortissimo terremoto del 1887, l'evento del 1923 avvenne nei pressi di Granados.
Figura 2. 'attività sismica della regione messicana dopo il fortissimo terremoto del 1887, l'evento del 1923 avvenne nei pressi di Granados.

Il secondo terremoto che confermò la previsione fu quello che colpì Senigallia alle 8:55 del 2 gennaio 1924, con un’intensità che è stata valutata in M=5.6 (9). Questo evento si verificò il giorno prestabilito da Bendandi ma con un epicentro differente da quello indicato, sebbene con un errore di poche centinaia di chilometri. In seguito, Bendandi stesso sottolineò che le sue previsioni non avevano ancora ben risolto il problema della località degli eventi (4,5). Occorre osservare inoltre che questo terremoto non risultò di maggiore intensità del precedente.
Notevole, tuttavia, è la coincidenza di questi due eventi sismici, che furono i più importanti relativamente ai periodi indicati, con le previsioni dei luoghi e delle date forniti da Bendandi. Per averne un’idea basta ricordare che nella regione della Penisola Balcanica e in tutta Europa non si ebbero eventi della stessa intensità nelle settimane prima o dopo il 2 gennaio 1924 (10). I due eventi più vicini temporalmente a quello del 2 gennaio che accaddero nella Penisola Balcanica furono quello di Chalkidiki in Grecia, avvenuto alle 20:57 del 5 dicembre 1923, M=6.4 (10), e quello di Sibenik in Croazia, avvenuto alle 8:39 del 29 gennaio 1924, M=5.3 (10,11). Nella stessa regione messicana non si registrarono forti scosse per diversi anni precedenti e successivi il 1923 (8). Non lontano, dalla Colombia, si ebbero notizie oggi confermate di due importanti scosse, la prima avvenuta il 14 dicembre 1923 alle 10:31, M=7 (12), di cui parlarono i vari quotidiani del mondo per le sue tragiche conseguenze, e la seconda avvenuta il 22 dicembre 1923 alle 9:55, M=5.5, sempre nella stessa regione colombiana (12).

Le ultime previsioni e le loro conferme

Se le prime previsioni furono divulgate ripetutamente dai diversi quotidiani italiani e sono oggi facilmente reperibili, così non fu per le altre previsioni pubblicate in singoli quotidiani e comunicati stampa in più di un cinquantennio. La raccolta di queste previsioni è stata ultimata nel dicembre 2008 (13) con la stesura di un catalogo. Il catalogo delle previsioni di Bendandi copre un intervallo di tempo che va dal mese di ottobre del 1914 al mese di agosto del 1977, esso comprende in tutto 143 eventi nella regione mediterranea e 167 nel resto del mondo. Gli eventi sismici indicati non si distribuirono uniformemente nell’arco dei 63 anni. Fra il 1924 e il 1927 le previsioni furono più dense con cadenze mensili, quindicinali e anche settimanali. Le previsioni diminuirono sul finire dell’anno 1927 e scomparvero nei primi mesi del 1928, quando il regime vietò a Bendanti di fare ulteriori previsioni “per non far fuggire i turisti dall’Italia”; e per evitare il suo esilio (14). Qualche rara previsione risale agli anni 1939/40. Dall’inizio del 1950 fino al 1964 Bendandi riprese un’attività sistematica di previsione. Alcune previsioni vennero pubblicate ancora negli anni dal 1971 al 1977. Una verifica di tutte le previsioni di Bendandi richiederà qualche anno di studio approfondito attraverso tutti i cataloghi sismici storici del mondo.
Si è scelto per questo motivo di riportare anche un altro insieme di previsioni significative, cioè le previsioni relative agli eventi più prossimi ai giorni nostri che il sismologo faentino rilasciò ai mezzi di comunicazione nel 1977. Queste previsioni non furono molto precise sulle date, esse vennero divulgate il 9 e il 12 marzo 1977 (15). Il 9 marzo annunciarono (15):

per ora nessuna nuova scossa rovinosa in Romania; scosse di una certa intensità nei prossimi mesi nella regione Balcanica, in particolare ne risentiranno i centri submarini dell’Egeo e dello Jonio; ripercussioni a Smirne e sulle coste dell’Asia minore; i focolai di Ocrida e le isole di Cefalonia risentiranno notevoli contraccolpi; in Romania non prima del prossimo autunno con contraccolpi a Gallipoli, nel mar di Marmara e sulle coste della Turchia;

e il 12 marzo (16):

nessun fenomeno grave per la regione Romena, scosse abbastanza sensibili per le isole Filippine, fremiti endogeni nello Jonio tra le isole di Zante e Cefalonia, sul finire del mese di agosto nella penisola Balcanica.

Queste sono le previsione dei terremoti più recenti ritrovate fra i documenti visionati nella sua casa osservatorio di via Manara n. 17 a Faenza e nelle biblioteche nazionali di Roma e Firenze. Il 4 marzo 1977 c’era stato il devastante terremoto di Varacea, M=7.2 Figura 3, e il 3 marzo Bendandi aveva annunciato l’inizio di una “crisi cosmica”, di cui i forti terremoti sono un aspetto. Con più di mille vittime nella sola capitale Bucarest il terremoto di Varacea fu uno dei più tragici della storia della Romania, ma un Istituto Geologico Americano aveva dato notizia di un altro possibile forte terremoto che si sarebbe dovuto verificare in Romania (17). D’altra parte, anche l’Italia l’anno precedente era stata colpita dal forte terremoto del Friuli, che aveva avuto una seconda forte scossa dopo alcuni mesi dalla prima. Probabilmente per questi motivi Bendandi fu spinto ad effettuare una previsione, specificando che nessun fenomeno importante avrebbe colpito la regione Romena fino all’autunno. Se andiamo a consultare il Catalogo dell’Europa Centrale e Sud Orientale (18), possiamo verificare che effettivamente il successivo evento sismico importante, M=5.1, colpì la stessa regione il primo gennaio del 1978, mentre un evento sismico di forte intensità si verificò solo il 30 agosto 1986, M=7.1.

Figura 3. La notevole profondità del terremoto di Varacea fece sentire gli effetti dell'evento in mezza Europa.
Figura 3. La notevole profondità del terremoto di Varacea fece sentire gli effetti dell'evento in mezza Europa.

Le Filippine furono colpite da un terremoto molto forte il 18 marzo 1977, M=7, come ricordato da numerosi quotidiani dell’epoca, e da uno ancora molto forte il 21 luglio dello stesso anno, M=6.9 (http://earthquake.usgs.gov/regional/neic/). Per quanto riguarda la Penisola Bacanica, secondo il catalogo dei terremoti dell’Europa Centrale e Sud Orientale (18), fra la seconda metà di luglio e la seconda metà di settembre 1977 si verificarono tre eventi significativi sulla terra ferma. Il 18 luglio alle 10:09:15LT, in Albania con magnitudo valutata in M=4.8; il 20 settembre alle 20:28:18LT, in Bosnia-Herzegovina con una magnitudo valutata in M=4.6; il 23 settembre alle 02:58:02LT, in Albania con una magnitudo valutata in M=4.6. Ma fu proprio fra l’Egeo e lo Ionio che l’attività si fece più intensa, infatti, dal catalogo sismico storico della Grecia (19) è possibile verificare l’esistenza di eventi importanti il 18 agosto, M=5.4, l’11 settembre, M=5.8, e ancora il 22 ottobre, M=5.1, vicino all’isola di Creta; mentre il 30 luglio, 30 e 31 agosto quattro scosse di moderata intensità sullo Ionio vicino alle isole citate con M=4.5-4.9. Finalmente, il 5 e 27 ottobre, M=5.3 e 5.0, il 28 novembre e 16 dicembre, M=5.4 e 5.3, varie scosse colpirono le coste della Turchia (19,20).
E’ importante ricordare che nel 1977 Raffaele Bendandi aveva già abbondantemente superato gli 83 anni. Questo particolare può confermare il fatto che lo studioso fosse in possesso di un metodo ben definito per la previsione dei terremoti, collaudato nell’arco di mezzo secolo.

Un sincero ringraziamento a Paola Lagorio e all’associazione “La Bendandiana” per l’impegno nella divulgazione delle scoperte di Raffaele Bendandi e per la possibilità che mi hanno dato di consultare i documenti citati, presenti nella Casa-Osservatorio dello scienziato.

 Bibliografia

(1) Bendandi, R., IL PROGRESSO ITALO AMERICANO, 15 novembre 1925; (2) Raffaele Bendandi, Un Principio Fondamentale dell’Universo, Volume Primo, S.T.E. Faenza, luglio 1931; (3) Raffaele Bendandi, Un Principio Fondamentale dell’Universo, Volume Secondo, a cura di Cristiano Fidani, EDIT Faenza, maggio 2006; (4) Bendandi, R., IL CORRIERE DELLA SERA, 7 febbraio 1924; (5) Cavara, O., IL CORRIERE DELLA SERA, Colui che prevede i terremoti, 4 gennaio 1924; (6) Bendandi, R., Il Nuovo PICCOLO, N.8, Autunno Eccezionale, 4 novembre 1923; (7) LA NAZIONE, Il sismologo faentino a colloquio con Padre Alfani e Padre Stiattesi, 1 febbraio 1924; (8) Suter, M., The historical seismicity of northeastern Sonora and northwestern Chihuahua, Mexico (28-32°N, 106-111°W), Journal od South American Earth Sciences, Vol. 14, pp. 521-532, 2001; (9) Gruppo di lavoro CPTI, Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani, versione 2004
(CPTI04), INGV, Bologna, 2004, http://emidius.mi.ingv.it/CPTI04/; (10) Earthquake Catalogue for the countries of the EU (as of 1990), Austria, and
Switzerland raggiungibile all’indirizzo: http://www.bgr.bund.de/cln_109/nn_336522/EN/Themen/Seismologie/Erdbeben/historisch/ historische__erdbeben__node__en.html?__nnn=true; (11) Herak, M., Herak, D. and Markusic, S., Revision of the earthquake catalogue and seismicity of Croatia, 1908-1992, Terra Nova, Vol. 8, pp. 86-94, 1996; (12) Espinosa, A., Gomez, A. and Salcedo, E., State-of-the-art of the historical seismology in Colombia, Annals of Geophysics, Vol. 47, N. 2/3, pp. 437-449, 2004; http://www.ceresis.org/portal/catal_inten.php; (13) Fidani, C., Le previsioni di Raffaele Bendandi ispirate dal grande terremoto, CIPH, 2009; http://www.itacomm.net/EQL/absbent1908.pdf; (14) Castelli, G., Una definitiva disposizione di Mussolini sull’attività di Bendandi, LA NAZIONE, 30 maggio 1927; (15) Bendandi, R., Previsioni sismiche, Comunicato diramato dall’agenzia ANSA, 9
marzo 1977; (16) Bendadi, R., Le previsioni di Bendandi per il 1977, LA NAZIONE – FIRENZE, 12 marzo 1977; (17) Bendandi, R., Forse la Romania Sarμa Colpita da un’altro Disastroso Terremoto, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, 10 Marzo 1977; (18) Shebalin N. V., et al., Earthquake Catalogue for Central and Southeastern Europe 342 BC – 1990 AD, http://www.bgr.de/quakecat/SE-EUROPE-CAT-GV.ZIP; (19) Catalogo dei terremoti in Grecia, periodi 1900-1963 e 1964-1999, consultabile all’indirizzo http://www.geophysics.geol.uoa.gr/frame_en/catal/menucatal_en.html; (20) Tan, O., Tapirdamaz, M.C. and Yoruk, A., The Earthquake Catalogues for Turkey, Turkish J. Earth Sci., Vol. 17, pp. 405–418, 2008.
CIPH – Comitato Italiano per il Progetto Hessdalen – ICPH © 2011 Cristiano Fidani © 2011 CIPH/ICPH

http://www.itacomm.net/EQL/2011_Fidani.pdf

Era il 1977 e John A.Eddy scriveva, il caso delle macchie solari scomparse – 2°Parte –

Svariate testimonianze dimostrano che, tra il 1645 e il 1715, l’attività solare subì un drastico rallentamento: probabilmente quello non fu un episodio isolato

 

 – Articolo ripreso dalla rivista “Le scienze” n°109 del Settembre 1977 su segnalazione del nostro Zambo-

La prima parte è disponibile al seguente link : http://daltonsminima.altervista.org/?p=22855

Ma possiamo fidarci degli antichi osservatori ? Fine a che punto erano efficienti i loro telescopi? Con quanta attenzione cercarono le macchie solari? Il XVII secolo appartiene a un passato molto lontano: era l’età di Luigi XIV, e la gente vestiva strani abiti e scriveva con stile pesante ed elaborato. Contemporaneamente però, Cassini scopri la separazione principale tra gli anelli di Saturno e si trovò che Saturno aveva almeno cinque satelliti. Il minimo di Maunder ebbe inizio 35 anni dopo che Galileo costruì il suo primo piccolo telescopio. In quegli anni sia l’ottica che l’astronomia ebbero un grande sviluppo. Il XVII secolo fu l’epoca dei telescopi sospesi che avevano fino a 60 metri di lunghezza focale. Fu l’epoca del primo telescopio riflettore di Newton e di molte altre innovazioni. Gli astronomi osservavano e contavano le macchie sul Sole più o meno come si fa oggi, e i loro strumenti erano poco diversi da quelli che furono usati per lo stesso scopo nei due secoli successivi. I loro schizzi di macchie solari, conservati nelle annotazioni e nei libri, sono dettagliati quasi quanto quelli degli osservatori del 1977. Sono convinto che gli astronomi del tempo di Luigi XIV possedevano strumenti e abilità sufficienti per vedere tutte le macchie solari, tranne le più piccole – sempre che ci siano state macchie solari da vedere. Credo che quegli osservatori non furono meno bravi di noi, che molto probabilmente ebbero uguale iniziativa e interesse professionale e forse avevano più tempo per stare al telescopio. Tennero il Sole sotto costante osservazione? Oppure Maunder scambio l’assenza di prove per una prova di assenza? Due fatti mi suggeriscono che non c’è problema di assenza di prove. La mancanza di macchie solari fu notata più volte in quel periodo, e se si accetta che gli osservatori del XVII secolo ragionassero come noi, penso che dovettero scrutare il Sole con particolare attenzione per cercare nuove macchie e verificare se quella scarsità, che già allora sembrava strana, era reale o no. Inoltre, gli articoli nelle riviste dell’epoca mostrano che la scoperta di una nuova macchia solare era ragione sufficiente per la stesura di una pubblicazione. Oggi invece, anche nei periodi di minimo si possono vedere tante macchie che se si scrivesse un articolo per ogni macchia, nessuna rivista potrebbe pubblicarli tutti.

Il ciclo delle macchie solari non è regalato ne in frequenza ne in ampiezza, come si può vedere in questo grafico del numero delle macchie solari per anno, che ci indica quante macchie furono visibili sulla superficie del Sole fra il 1610 e il 1976. L'intervallo di tempo tra due massimi del ciclo delle macchie solari non è sempre di 11 anni; è stato anche di soli otto anni o si è esteso fino a 17. Inoltre, alcuni massimi, come quello del 1959, sono molto più pronunciati di altri, per esempio di quelli dell'inizio del XIX secolo. L'autore suole chiamare il periodo dal 1645 al 1715 minimo di Maunder, dal nome del fisico britannico E. Walter Maunder, che per primo ipotizzò che tale periodo potesse avere influito sulle condizioni terrestri. I dati sulle macchie solari osservate prima del 1650 sono approssimativi. Il primo picco attorno al 1612 è stato dedotto da Galileo; il secondo da quelle di Christoph Scheiner, registrato nel suo libro Rosa Ursina; il terzo da quelle di Hevelius.

E’ possibile che le condizioni atmosferiche abbiano ostacolato le osservazioni ? E’ possibile che l’Europa abbia avuto per 70 anni un numero così insolitamente grande di giorni di cielo coperto, da tenere gli astronomi lontani dai loro telescopi? Fu in effetti un periodo insolitamente freddo per l’Europa, ma non fu un periodo di cielo totalmente coperto. Se così fosse stato, avremmo trovato sulle riviste le lamentele degli astronomi, che non hanno mai avuto la fama di essere pazienti ne silenziosi. [inoltre, nel XVII secolo l’astronomia notturna fu attiva ed efficiente: si avvistarono comete regolarmente e i progressi che furono fatti allora nella conoscenza dei pianeti richiesero non solo cieli liberi, ma anche atmosfera non turbolenta. Resoconti storici sulle aurore boreali – le <<luci del nord>> – lasciano ancor meno spazio per i dubbi sulla realtà del minimo di Maunder. L’apparizione di fenomeni d’aurora e connessa al livello di attività solare. Al di sotto del Circolo Polare Artico il numero di notti in cui si vedono aurore boreali e ben correlato col numero di macchie sul Sole. In generale la frequenza di osservazione delle aurore boreali dipende anche dalla distanza dell’osservatore dai poli magnetici terrestri. Le aurore boreali sono più frequenti alle latitudini più elevate e sono rare all’equatore, infatti a basse latitudini la geometria delle linee di forza del campo magnetico terrestre scherma l’atmosfera dalle particelle emesse dal Sole che causano le aurore boreali. In 70 anni di normale attività solare e possibile osservare almeno 500, ma forse anche 1000, aurore boreali nelle regioni europee densamente popolate. Ma ben poche aurore boreali furono viste in Europa tra il 1645 e il 1715. Perfino in Scandinavia, dove oggi è possibile vedere aurore boreali quasi ogni notte, se ne osservarono così poche da essere ritenute fenomeni eccezionali e portentosi. Durante il minimo di Maunder ci fu un periodo di 37 anni in cui non fu registrata neppure un’aurora boreale su tutta la Terra. Quando finalmente se ne vide una in Inghilterra nel marzo del 1716, alla fine del minimo di Maunder, l’astronomo Edmund Halley, che era allora Astronomo Reale, si senti in dovere di scrivere un articolo per cercare di spiegare il fenomeno. Egli confessò di non avere mai visto aurore boreali in precedenza, nonostante che avesse gia 60 anni e avesse sempre cercato di osservarne una: Halley non sapeva di essere vissuto a cavallo della maggior parte del minimo di Maunder.

Il minimo di 70 anni delle macchie solari e particolarmente evidente se si mette in grafica anno per anno il numero di aurore boreali storicamente registrate. Maunder avrebbe trovato validi motivi per scrivere i suoi articoli semplicemente guardando quel grafico. Nei conteggi di aurore boreali storicamente noti, c’è però un altro fatto che richiede spiegazioni. Nei tempi antichi fu registrato un numero di aurore boreali molto piccolo rispetta ai valori odierni, Come mai se ne videro cosi poche anche prima del 1645 ? I resoconti mostrano che il numero di aurore boreali registrate comincia a crescere rapidamente verso il 1550, è interrotto dal minimo di Maunder, e poi ha un incremento di un fattore pari a circa 20 dopo il 1716. Fino a che punto il rapido aumento nel numero di aurore boreali registrate dopo il 1550 può essere stato prodotto da ragioni sociali, cioè essere una conseguenza dell’interesse per l’astronomia nel Rinascimento, oppure, in un secondo tempo, dell’articolo di Halley? Ho il sospetto che gran parte dell’aumento del numero di aurore boreali registrate dopo le epoche medievali sia stato prodotto da ragioni sociali. Altri fatti mi fanno pensare però che almeno una parte di esso sia un effetto fisico prodotto da cambiamenti reali del Sole. Ci sono indizi che suggeriscono che in tempi antichi ci furono altri periodi prolungati simili al minima di Maunder. Essi appaiono chiaramente in antiche registrazioni di aurore boreali e di macchie solari osservate a occhio nudo. Sono così giunto a pensare che la frequenza odierna di macchie solari e di aurore boreali è probabilmente insolito, se confrontato con i valori medi ottenuti facendo la media su tempi molto lunghi, e che l’attività del Sole e aumentata continuamente dopo il XVII secolo, fine a raggiungere un livello molto elevato – un livello forse mai raggiunto in questo millennio.

Resoconti sull’osservazione di macchie solari senza l’aiuto di un telescopio forniscono un controllo sull’attendibilità dei dati sulle aurore boreali e sulla realtà del minimo di Maunder. Si ha notizia di osservazioni di macchie sul Sole almeno fin dal quinto secolo avanti Cristo e dopo allora furono registrate con regolarità soddisfacente, soprattutto in Oriente. E’ facile osservare a occhio nudo macchie di grandi dimensioni o gruppi di macchie all’alba o al tramonto, oppure quando il Sole è fortemente oscurato e colorato di fumo. Nel 1933 l’astronomo giapponese Siguru Kanda compilò una lista di osservazioni di macchie solari fatte a occhi nudo in Giappone, Cina e Corea. Egli trovò che nell’era cristiana sono state viste in media da cinque a 10 macchie per secolo, comprendendo pochi periodi in cui si vedevano macchie con maggiore frequenza e vari altri in cui non si vedeva nessuna macchia. Uno di questi periodi di assenza di macchie si estende dal 1584 al 1770, comprendendo pertanto il minimo di Maunder. Questa prova non è conclusiva, e ci sono ragioni di carattere sociale che potrebbero render conto dei periodi privi di macchie, soprattutto se si tiene canto che il numero di osservazioni è cosi basso.

Sarei propenso a dimenticare i periodi senza macchie solari registrati in Oriente trattandoli come semplici coincidenze, se non fosse per il fatto che le osservazioni delle macchie solari a occhio nudo concordano molto bene con la frequenza delle aurora boreali osservate in Europa in più di 2000 anni.

 

– Fine seconda parte –

Michele

Indici meteo-climatici di Dicembre 2012 e prospettive meteo-climatiche

Introduzione

Di seguito si riportano i principali indici climatici e se ne discute brevemente il significato e le conseguenze sul tempo e sul clima dell’Europa e dell’Italia.

La legenda relativa ai seguenti (e molti altri) indici è disponibile al link http://www.meteoarcobaleno.com/index.php?option=com_content&view=article&id=227:indici-climatici&catid=3:climatologia&Itemid=3,  peraltro già riportato nel forum Meteo.

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Gli indici: i valori del mese

Tra parentesi sono riportati i valori del mese precedente

ENSO (El Niño Southern Oscillation, ad oggi Niño): (+0,166) +0,037

PDO (Pacific Decadal Oscillation): (-0,59) -0,48

AMO (Atlantic Multidecadal Oscillation):   (+0,210) +0,176

QBO30 (quasi Biennal Oscillation alla quota di 30Hpa): (-18,95) -10,03

QBO50 (Quasi Biennal Oscillation alla quota di 50Hpa): (-10,65) -11,70

MJO (Madden-Julian Oscillation): attualmente è da poco entrato in fase 7 e presumibilmente entrerà in fase 8 entro la fine del mese. L’intensità è di un certo rilievo, dopo mesi di intensità davvero ridotta.

 

Commento indici Dicembre

– l’ENSO a dicembre (e ancora di più a gennaio) appare ormai orientato ad una Nina debole nel comparto oceanico centro-orientale 8zone 1+2, 3 e 3.4), mentre permane una condizione di neutralità nel comparto occidentale (zona 4).

– La PDO permane negativa, come da comportamento ciclico (è divenuta negativa qualche anno addietro e resterà tale per diversi anni) ed oscilla, talvolta aumentando (come adesso), talvolta diminuendo; sta più che mai confermando il suo ruolo “moderatore” nei confronti dell’evento di Nino conclusosi, probabilmente contribuendo in modo decisivo nel “sopprimere” tale evento. Al link seguente è riportato il grafico storico della PDO: http://jisao.washington.edu/pdo/img/pdo_latest.jpeg

– L’AMO si conferma in territorio positivo, ad ulteriore conferma della conclusione dell’escursione in territorio negativo. Al link seguente è riportato il grafico storico dell’AMO http://wattsupwiththat.files.wordpress.com/2011/12/november_2011_amo.jpg Tale indice risulta di dubbia interpretazione in termini climatici, se non nel lungo termine (decenni) a fronte di un suo cambio di segno.

– La QBO30 è in netta ripresa, pur restando ancora decisamente negativa.

– La QBO50, dopo una parziale risalita, ha raggiunto il nuovo minimo di questa fase negativa.

In base alle osservazioni ENSO NOAA, siamo ormai in presenza di un evento di Nina nella sua fase iniziale, almeno nella porzione centro-orientale dell’Oceano Pacifico equatoriale. Per ora si tratta di un evento debole, ma l’incertezza delle previsioni (testimoniata dall’elevata dispersione dei membri previsionali del NOAA già dopo qualche mese) non consente per ora di valutarne con precisione la “taglia”. Le anomalie sottosuperficiali di temperatura possono fornire una prima valida indicazione in tal senso. La figura successiva si può reperire al seguente link http://www.bom.gov.au/cgi-bin/wrap_fwo.pl?IDYOC007.gif ,

Nel corso dell’autunno si sono alternate e in sostanza bilanciate anomalie positive e negative, segno di una prolungata fase di transizione tra Nino e Nina. Ora però, le anomalie negative sottosuperficiali evidenti specie nelle ultime due immagini (dicembre e gennaio, anomalie fino a -4 gradi) cominciano ad emergere in superficie. Inizia così un pur debole (per ora) nuovo evento di Nina, appena 10 mesi dopo il termine dell’evento di Nina precedente. Ad ovest, invece, tra i 120 ed i 180 gradi di longitudine est, resistono tenacemente deboli anomalie positive.

L’emersione è ormai evidente anche nell’immagine successiva, quella relativa alle anomalie di temperatura superficiale nell’Oceano Atlantico.

Prevalgono ormai da mesi deboli anomalie positive, soprattutto nel comparto oceanico tropicale ed equatoriale centrale, tra Sudamerica ed Africa. Più a nord, si osserva una certa alternanza tra deboli anomalie di segno opposto. Le principali anomalie negative si ritrovano attorno alle  Isole Britanniche e nel Mediterraneo Occidentale.

http://www.osdpd.noaa.gov/data/sst/anomaly/2012/anomnight.1.17.2013.gif

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La seconda parte dell’inverno 2012/2013

 

I prossimi giorni

La settimana dal 20 al 27 gennaio sarà caratterizzata da un flusso atlantico o nord atlantico, dunque mediamente ondulato, freddino, con depressioni e perturbazioni che si succederanno, alternate da qualche breve pausa. Nulla di che in termini invernali, comunque si tratta di una condizione in grado di apportare buone precipitazioni in pianura e un buon apporto nevoso in montagna, al Nord a quote basse, altrove a quote medie.

Tale situazione è ben riassunta dalla seguente previsione di temperatura ad 850Hpa (1400-1500 metri di quota), relativa alle prime ore del mattino di giovedì 24, dunque a metà settimana:

Si nota perfettamente la direttrice principale delle correnti, da ovest-nordovest, dall’Atlantico settentrionale proprio verso l’Europa occidentale e anche l’Italia, nonché le isoterme, freddine ma non rigide per noi. Più a nord e ad est, staziona invece un nucleo di aria molto più fredda, che però non sembra volerci interessare, a causa della mancata elevazione dell’Anticiclone delle Azzorre (in basso a sinistra) lungo i meridiani.

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Evoluzione del Vortice Polare Stratosferico (VPS)

La prima parte dell’inverno europeo, come abbiamo visto, ci ha mostrato un’alternanza tra irruzioni fredde artiche, o artico-continentali, flussi miti perturbati atlantici e qualche anticiclone, anche a componente subtropicale e dunque con effetti mitigatori del clima invernale. Insomma, rispetto alle prospettive di partenza (Sole debole, niente Nino né Nina, QBO nettamente negativa) favorevoli ad un inverno “con i fiocchi”, per l’Europa e magari anche per l’Italia, a nord delle Alpi si è visto e si sta vedendo abbastanza, mentre a sud delle Alpi si è visto davvero poco. Perché? Una spiegazione risiede nel comportamento del Vortice Polare Stratosferico (VPS), piuttosto compatto rispetto alle attese e comunque con comportamenti diversi alle diverse quote stratosferiche (disaccoppiamento: split alle quote elevate, bilobazione alle quote inferiori): l’ormai noto stratwarming (o Major Midwinter Warming, MMW) avrebbe dovuto far “esplodere” il VPS, sostituendolo con un grande anticiclone polare, e mandandone a spasso i pezzi per l’Europa, l’Asia e il Nordamerica; in realtà, i suoi effetti non si sono propagati a tutte le quote della stratosfera e tantomeno alla troposfera. La ragione di ciò sarà spiegata in un articolo di approfondimento o nel forum Meteo di NIA. Limitiamoci per ora a questa constatazione.

Ora si prospetta una svolta netta, forse anche duratura, sebbene magari non proprio nei termini che ci si immaginerebbe.

Osserviamo la mappa seguente. Si tratta di un’analisi stratosferica GFS a 50Hpa (media stratosfera).

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Il VPS a 50Hpa, ad oggi, è marcatamente diviso in due lobi, si tratta quasi di uno split. Lo split è completo alle quote superiori (specie a 10 e 30Hpa), mentre è solo netta bilobazione alle quote inferiori (70 e 100Hpa).

Osserviamo poi una previsione a 5 giorni, ancora a 50Hpa:

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Il VPS è ancora diviso in due lobi, tuttavia la bilobazione è un po meno netta. Inoltre, si nota chiaramente una nuova spinta dell’anticiclone aleutinico, sulla sinistra dell’immagine.

Infine, la previsione a 10 giorni mostra quanto segue:

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La bilobazione è pressoché scomparsa, anche se il VPS è ancora piuttosto allungato, dunque non propriamente compatto. Inoltre, l’anticiclone aleutinico spinge con forza dall’Oceano Pacifico verso il Polo Nord, contribuendo alla sostanziale riunione dei due lobi del VPS, con il nucleo principale ancora posizionato tra Canada e Groenlandia.

Volendo utilizzare un’immagine intuitiva, la previsione suggerisce un “travaso” di gran parte del lobo siberiano nel lobo canadese.

Questo comportamento del VPS appare simile in entrambi i principali modelli di previsione stratosferica, GFS ed ECMWF e soprattutto a tutte le quote e contemporaneamente o quasi. Insomma, il succitato “disaccoppiamento” in questo caso non si verifica: come rispondendo ad un comando misterioso, il VPS riunisce in buona misura i suoi lobi all’unisono in un’unica struttura, disposta tra la Siberia ed il Canada nord orientale, passando per la Scandinavia, le Isole Britanniche e l’Atlantico settentrionale.

ECMWF, rispetto a GFS, non vede un “travaso” quasi completo di un lobo nell’altro, bensì un netto riavvicinamento tra i due lobi e dunque un ricompattamento dell’intera struttura, distesa tra Canada nord orientale, Atlantico settentrionale ed Europa nordorientale.

Beninteso, ciò non significa che il VPS non sia più disturbato e dunque suscettibile di nuove bilobazioni. Però indica che il MMW non ha portato e non porterà ai risultati attesi, cioè lo split a tutte le quote, anzi il VPS si ricompatterà parzialmente e dunque, all’inizio di febbraio, ci si ritroverà in una condizione di “punto e a capo”.

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Considerazioni finali

Nell’ipotesi che questa sia una previsione attendibile (conferma abbastanza quella del giorno precedente e quella di due giorni prima e vede nella sostanza concordi GFS ed ECMWF), si può ragionevolmente ipotizzare un proseguimento dell’inverno molto severo per la Siberia, per il Nord Europa (specie la Scandinavia, ma forse anche le Isole Britanniche), e almeno per parte del Canada e forse degli Stati Uniti orientali. Per il resto dell’Europa, invece, specie quella mediterranea, dunque compresa l’Italia, è ragionevole attendersi un tipo di tempo mediamente “da ovest”, con oscillazioni da nordovest più o meno marcate, dunque a tratti piovoso, ma comunque in prevalenza umido e mite e non eccessivamente freddo nemmeno in presenza di correnti da nordovest. Insomma, si tratterebbe di un tipo di tempo dal sapore più autunnale che invernale.

Ci sono possibilità che questa forma comunque allungata del VPS possa offrire spazio ad un avanzamento verso ovest dell’anticiclone siberiano? Ben poche, la spinta dell’anticiclone aleutinico è forte e tende a premere troppo verso l’Europa. Un VPS allungato, ma più centrato sull’Oceano Artico, avrebbe offerto maggiori possibilità ad un evento del genere. Anzi, la forza delle correnti occidentali potrebbe spingere l’Orso ancora più ad est, relegandolo alla Siberia orientale, sua patria di origine.

Chiaramente, per gli amanti del freddo e della neve si tratterebbe di una grossa delusione. Tuttavia, le carte stratosferiche sono fin troppo eloquenti e, a meno di dinamiche troposferiche (dunque ai piani bassi dell’atmosfera) ad ora non chiaramente visibili, le conseguenze sulla troposfera saranno con ogni probabilità quelle citate sopra.

Quanto potrà durare questa nuova configurazione del VPS? E’ davvero difficile dirlo. Si può osservare che alle quote stratosferiche più elevate (1 e 2 Hpa), il VPS, prima molto disturbato, probabilmente tornerà ad essere quasi circolare, cioè assolutamente compatto. A quelle quote, peraltro, la QBO risulta ormai ampiamente positiva e ciò non favorisce certo nuovi stratwarming. Ciò suonerebbe davvero come una campana a morto per l’inverno dalle nostre parti. Ma non affrettiamo le conclusioni.

Inoltre, in termini stagionali, i tempi cominciano a “stringere”: il calendario dice che siamo ormai vicini al culmine della stagione e non si vedono eventi che possano condurre ad alcun severo peggioramento di chiaro stampo invernale, alle latitudini mediterranee. Certo, manca ancora il mese di febbraio e forse anche buona parte di marzo, però le prospettive invernali al momento sono tutt’altro che incoraggianti.

Eventuali aggiornamenti saranno disponibili nei commenti al presente articolo, nel forum Meteo, oppure in un successivo articolo di approfondimento.

FabioDue