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L’Ecobufala e il Congresso di Cancun…

Molti esultano, ma sulla lotta ai gas serra il summit vara un’intesa col trucco. I climatologi: la temperatura globale calerà naturalmente

Cancun – Onanismo sfrenato, quello dei convenuti a Cancun. Parole forse meno colorite, sicuramente meno volgari, ma che rendono lo stesso concetto sono quelle dell’inviata del Corriere della Sera, Alessandra Arachi, che domenica scorsa ha avuto il coraggio scrivere: «l’assemblea dei Paesi del mondo ha applaudito sé stessa». Parole uniche in un intero foglio di esaltazioni evocate sin dalla prima pagina dal quotidiano milanese, che trionfalmente titolava: «Clima, accordo a sorpresa a Cancun».

 Non meno trionfale il titolo che Repubblica ha riservato al suo corrispondente, il solito Cianciullo, senza però riservargli, stavolta, gli onori del richiamo in prima pagina. D’altra parte, ci vuole una spessa coltre di bronzo per concedere quegli onori a uno che scrive, come Cianciullo ha scritto, probabilmente senza arrossire, che «i cinesi hanno la leadership nell’energia pulita». I cinesi? È da almeno cinque anni che installano una centrale a carbone ogni 10 giorni (sì, avete letto bene: una ogni 10 giorni), mentre la loro generazione elettrica è coperta per lo 0,7% dall’eolico e per lo 0,01% dal solare, e avrebbero, i cinesi, la leadership nell’energia pulita? Una frase che avrei potuto scrivere io perché so che quella dal carbone, se prodotta dai nostri impianti, è energia pulita; ma che non scrivo perché non sono sicuro che gli impianti cinesi siano dello stesso tipo che usiamo noi.
Cianciullo ha definito Cancun «un successo degli ambientalisti». Contento lui. L’accordo, informa il giornalista di Repubblica: 1) sollecita la «riduzione delle emissioni del 25-40% entro il 2020»; 2) all’uopo istituisce un fondo, gestito dalla Banca mondiale, di 10 miliardi di dollari l’anno per 3 anni, ma col proposito di farli diventare 100 l’anno fino al 2020; 3) sottoscrive la necessità di mantenere gli aumenti di temperatura (testualmente) «entro i 2 gradi, meglio se entro gli 1,5 gradi per la fine del secolo».

Capisco che 30 miliardi di farebbero gioire chiunque (figuriamoci i banchieri); che se poi diventano 100 miliardi l’anno reclamano un bel brindisi (i banchieri, poi, sarebbero ansiosi di brindare, anche alla nostra salute, per quel che costa loro). Ma ciò che non capisco è il visibilio degli ambientalisti. Se a Cancun avessero approvato e reso operativo ciò che non hanno approvato, e cioè non 10 ma 100 miliardi l’anno da oggi al 2020, sarebbero 1.000 miliardi. Che, se impegnati tutti nel nucleare, consentirebbero di installare 300 reattori e produrre di 300 GW (gigawatt), che rappresentano una riduzione delle emissioni del 6%. Con 1.000 miliardi di dollari si possono invece installare 1.000 GW eolici, che però producono 200 GW elettrici (il vento non soffia sempre), che rappresentano una riduzione delle emissioni del 4%. Oppure, sempre con 1.000 miliardi di dollari, si possono installare 200 GW fotovoltaici, che però producono 20 GW elettrici (il sole non brilla sempre), che rappresentano una riduzione delle emissioni pari allo 0.4%. Qualunque cosa si faccia, siamo ben lontani dal minimo del 25% sottoscritto a Cancun dai fessi del mondo. Dei quali la palma, e col botto, va al ministro all’ambiente indiano, definito «carismatico» da un Cianciullo che in estasi ce ne riporta il commento: «ci sono occasioni in cui lo spirito del luogo deve prevalere sulla procedura». Boh? Io insisto: i ministri dell’ambiente vanno aboliti.

Ma tanto fessi, forse, non sono stati, quelli di Cancun: aver spostato l’obbiettivo ufficiale dall’entità della riduzione delle emissioni all’entità della riduzione delle temperature è stato un colpo da veri maestri. Se le temperature del globo diminuiranno (come la climatologia migliore, per quanto giovane e imperfetta, prevede), questi signori potranno brindare al successo e accreditare quelle diminuzioni alle loro 16 inutili riunioni. Se le temperature non dovessero diminuire, potranno invece sostenere che «bisogna fare di più»: vorranno non 1.000, ma 10.000 miliardi. Delle due una: o la crisi non esiste, o costoro ne sono la causa.
La migliore caratterizzazione del cancan di Cancun l’ha data, ancora una volta, ma forse inconsapevolmente, la brava inviata del Corsera, ove nell’articolo che ho citato scrive: «il fiore all’occhiello degli accordi messicani è stata la volontà di riconfermare il protocollo di Kyoto». Dovete sapere che questo protocollo, sottoscritto nel 1997 ed entrato in vigore nel 2003, prevede la riduzione delle emissioni del 5% rispetto ai valori del 1997; senonché, oggi quelle emissioni sono invece aumentate, del 5% nella «virtuosa Europa» e del 20% a livello mondiale, rispetto a quelle del 1997. Se questo è stato il fiore all’occhiello di Cancun, immaginatevi il resto. Comunque, gli sfaccendati di Cancun si sono dati il loro 17mo appuntamento, l’anno venturo, in Sudafrica: mettiamoci comodi, ma occhio al nostro portafogli.

Di Franco Battagllia

Fonte:

http://www.ilgiornale.it/interni/dal_vertice_onu_arriva_pacco_che_illude_ambientalisti/13-12-2010/articolo-id=493181-page=0-comments=1

PERCHE’ E’ RAGIONEVOLE DUBITARE DELLE STIME SULLA SENSIBILITA’ CLIMATICA – II parte: i modelli GCM

di agrimensore g., con la collaborazione di Fano

Nella prima parte,  abbiamo visto che la stima del valore della climate sensitivity (sensibilità climatica), cioè il coefficiente relativo all’aumento delle temperature a fronte di una maggiore quantità di IR (Infrared radiation), è particolarmente ardua se effettuata confrontando il comportamento della Terra col passato. Quello che si riesce a fare è trovare una funzione di distribuzione del valore che dovrebbe almeno essere sottoposta ad una verifica sperimentale, molto difficile da progettare.

Un metodo alternativo, o a integrazione, è quello di utilizzare i modelli GCM (General Circulation Model)

I modelli GCM, come noto, sono quei modelli che prevedono alcune grandezze climatiche (di norma venti, temperature, precipitazioni e pressione) attraverso i relativi valori statistici in un orizzonte temporale di più decadi (venti o trent’anni). In genere le elaborazioni vengono effettuate su potenti computer per permettere il calcolo numeriche delle legge fisiche che interessano il clima.

Funzionano bene?

Il modo più naturale per capire se funzionano è confrontarli con la realtà. Può sembrare una banalità, ma spesso per valutare il loro grado di funzionamento si giudicano le discrepanze tra i vari modelli, il fatto che siano diminuite viene giudicato un buon risultato. Oppure vengono confrontate le medie dei modelli con un super-modello ( http://scienceofdoom.com/2010/03/23/models-on-and-off-the-catwalk-part-two/) per evidenziare come la media sia migliore del singolo.

Mi sembra ovvio che tutto ciò non implichi affatto che i modelli GCM funzionino. Sarebbe opportuno  il confronto con la realtà oggetto delle previsioni.

Purtroppo, per riscontrare  con gli output dei modelli sarebbe necessario aspettare parecchi anni, perché le loro previsioni si riferiscono a  medie e grandezze statistiche da applicare a periodi multidecadali. Anziché attendere venti o più anni, possiamo cominciare a verificare i cosiddetti hindcast, cioè gli output dei modelli che si riferiscono al passato. Riprendo dallo stesso sito precedente, sostenitore dell’AGWT, la figura riportata nell’AR 2007 IPCC in merito ai modelli:

 

 

Nelle figura le parti in blu rappresentano una sottostima e le parti in rosso una sovrastima delle temperature. Come si vede non c’è nessun modello che abbia solo colori tenui, chiari. Anche quello che viene considerato il migliore (in alto a destra) presenta vari punti deboli, ad esempio ha sottostimato le temperature in Groenlandia e le ha sovrastimate in Antartide. La circostanza che per qualcuno la media generale sia simile a quella osservata non può essere considerata come la prova che i modelli GCM funzionino.

Prendiamo un’altra grandezza prognostica importante, le precipitazioni.

Qui  in generale i modelli GCM sembrano aver sottostimato l’incremento delle precipitazioni avvenuto in questi anni. Lo evidenzia il lavor di Frank J. Wentz, Lucrezia Ricciardulli, Kyle Hilburn, Carl Mears (http://www.remss.com/papers/wentz_science_2007_paper+som.pdf)

con il seguente abstract (già riportato in originale in un precedente articolo di NIA):

Sia i modelli climatici, sia le osservazioni satellitari indicano che la totalità dell’acqua in atmosfera aumenterà del 7% per grado Kelvin di riscaldamento della superficie. Tuttavia, i modelli climatici prevedono che le precipitazioni globali aumenteranno a un tasso molto più lento, da 1 a a 3% per Kelvin (n.d.r: significherebbe più vapor acqueo e meno pioggia). Un’analisi recente delle osservazioni satellitari non conferma questa previsione di una mutata risposta delle precipitazioni a fronte del global warming. Piuttosto, le osservazioni suggeriscono che le precipitazioni e la totalità dell’acqua totale in atmosfera sono aumentate circa dello stesso tasso nelle precedenti due decadi.

D’altra parte, anche le istituzione favorevoli all’AGWT, ammettono che c’è ancora parecchio da sviluppare. Un esempio è contenuto  nella lettera (cfr. http://www.aps.org/about/pressreleases/haroldlewis.cfm)  con cui l’APS (American Phisycal Society) ha risposto alle critiche del professor Lewis, dimessosi proprio per contrasti in merito alle posizioni dell’associazione sui cambiamenti climatici. Dopo una serie di contestazioni al professore Lewis, l’APS scrive che

However, APS continues to recognize that climate models are far from adequate

Perché i modelli GCM non sono adeguati?

Senza inserire i vari link, è quasi unanimemente riconosciuto che uno dei problemi maggiori dei modelli GCM sia la simulazione del processo di formazioni delle nubi. Questo processo, da un punto di vista algoritmico, è parametrizzato. In sostanza, non è implementato solo attraverso leggi fisiche, ma è stato necessario utilizzare delle formule empiriche che dipendono da alcuni parametri e sono state costruite con algoritmi complessi (es.: reti neurali) cercando di renderle efficaci nel simulare il passato.

Però qualcosa non va.

Il processo di formazione delle nubi è importante perché a secondo di come viene implementato può rappresentare un rilevante feed-back positivo o negativo. Secondo una teoria condivisa da molti, almeno quelle medio-basse rappresentano un rilevante feed-back negativo, mentre per molti dei modelli sono un feed-back positivo.

Una possibile spiegazione di questa discrepanza si trova nella teoria di Svensmark e Shaviv circa la capacità dei GCR (Galactic Cosmic Rays) di favorire la formazioni di nubi. L’ingresso dei GCR in atmosfera è modulato dal vento solare; in sostanza,  a un’attività solare intensa corrisponde una diminuzione del livello dei GCR, mentre in periodi di scarsa attività solare, i GCR aumentano e di conseguenza si formano più nubi.

Poiché nessun modello GCM considera questa teoria, se essa fosse vera, la parametrizzazione, basata su dati di anni precedenti, avrebbe mascherato la carenza di conoscenza e quindi, la bontà delle proiezioni fornite sarebbe compromessa dal fatto di non aver considerato un input fondamentale. Ovviamente il livello dei GCR in atmosfera è difficilmente prevedibile, cosicché dovrebbe essere incluso come una delle grandezze per definire i vari scenari.

Naturalmente, ci sono altre possibili motivazioni per spiegare la discrepanza tra realtà e proiezioni dei modelli, tuttavia l’elemento più incerto al momento rimane il processo di formazione delle nubi.

Ma i modelli GCM non sono verificati e validati (V&V)?

Si legge e si sente dire spesso che, poiché i modelli GCM riescono a “ricostruire” il clima dell’ultimo secolo, allora possono essere impiegati per provare a prevedere il clima nel futuro. Questa circostanza, comproverebbe che nei GCM sono implementati tutti i processi fisici necessari, inclusi quelli che determinano un aumento delle temperature globali all’aumentare della CO2.

Una prima considerazione è che quanto viene ricostruito dai GCM è il trend crescente della temperatura (a parte le diminuzioni dovute a forte eruzioni vulcaniche), non le oscillazioni di breve periodo, che sono considerate come variabilità interannuali, e quindi pseodocasuali. Però, in questo modo qualunque grandezza abbia avuto un andamento crescente nell’ultimo secolo, e in particolare negli ultimi trent’anni (ad esempio, il debito pubblico italiano), risulterà in correlazione col clima, non solo la CO2, e di conseguenza le temperature ricostruite dai GCM. Per trovare una prova più convincente sarebbe opportuno che i GCM riuscissero a seguire le variazioni del clima (es.: riscaldamento anni ’40), non solo il trend di fondo, corretto col contributo delle eruzioni vulcaniche.

Per chiarire il concetto, esaminiamo la figura che riporta l’IPCC nell’AR 2007

Questo grafico è inteso essere una sorta di validazioni dei modelli perchè si vede che la linea rossa (la ricostruzione media da parte di 14 modelli GCM) segue “piuttosto bene”, la linea nera, ciò che è successo in realtà. Notate però che il “piuttosto bene” è riferito ad un valor medio, mentre le variazioni sono seguite molto bene, solo quando si tratta di eruzioni vulcaniche, e praticamente per nulla negli altri casi. Ad esempio, il riscaldamento avvenuto prima del ’40 non è stato colto dai modelli e nemmeno il raffreddamento nella decade successiva. Certamente si può spiegare quasto scostamento con una variabilità interannuale pseudocasuale. A questo punto, però, se si costruisce un modello facendo dipendere la temperatura da una qualsiasi grandezza che è stata crescente nell’ultimo secolo, e in particolare nelle ultime decadi, ottengo un risultato simile (purchè inserisca la variabile “eruzione vulcanica”).  Detta in termini statistici, è l’analisi spettrale quella che più mi convince di aver trovato una buona correlazione. Insomma, come validazione un risultato quale quello esposto in figura non è il massimo, ed oltre tutto si tratta di una media di modelli.

Ma c’è un problema più sottile e decisivo, che si colloca a metà tra l’epistemologia e le tecniche di data mining.

I GCM (così come molti altri tipi di modelli) vengono sviluppati in due fasi:

– la fase di “training” ove il modello “impara” qual è il valore corretto da assegnare ai parametri, a volte con tecniche  proprie dell’intelligenza artificiale (la parametrizzazione sopra menzionata);

– la fase di “test” ove il modello viene “collaudato” con dati diversi da quelli utilizzati per la fase di training (backtesting, da cui gli hindcast suddetti).

I dataset utilizzati per le due fasi sono, ovviamente, distinti e si chiamano rispettivamente “training data” e “test data”.

Per capire l’importanza della fase di test, è opportuno ricordare che i modelli, di qualsiasi tipo, debbono affrontare un problema comune: l’overfitting.

Dalla definizione di wikipedia, sappiamo che:

…si parla di overfitting (eccessivo adattamento) quando un modello statistico si adatta ai dati osservati (il campione) usando un numero eccessivo di parametri. Un modello assurdo e sbagliato può adattarsi perfettamente se è abbastanza complesso rispetto alla quantità di dati disponibili.

 

Overfitting. La curva blu mostra l’andamento dell’errore nel classificare i dati di training, mentre la curva rossa mostra l’errore nel classificare i dati di test o validazione. Se l’errore di validazione aumenta mentre l’errore sui dati di training diminuisce, ciò indica che siamo in presenza di un possibile caso di overfitting.

A tal proposito, rimando al’articolo di Nitopi per la parte matematica propedeutica :http://daltonsminima.altervista.org/?p=12172

L’articolo ci mostra come riusciamo ad approssimare i dati sperimentali rendendo più complicata la funzione, senza però poter affermare di aver migliorato la capacità predittiva della funzione stessa.

E’ un po’ come cercare di insegnare a guidare un ubriaco: durante le guide di prova non va a sbattere perchè l’istruttore prende il volante e frena al posto suo. Però quando è solo, rischia di andare contro un muro o cadere in un fosso alla prima curva.

Ebbene, durante lo sviluppo dei primi modelli GCM, è stato presumibilmente possibile procedere correttamente.  I dati a disposizione sono stati suddivisi in “training data” e “test data”.

Successivamente, sono stati sviluppati nuovi modelli, a partire, tra l’altro dagli errori riscontrati nei modelli precedenti. Solo che a questo punto tutti i dataset utilizzati dal primo modello, avrebbero dovuto essere riutilizzati come training data, non come test data. Questa criterio deve essere rispettato, altrimenti sarebbe come se le prove sperimentali di una teoria fossero le stesse osservazioni cha hanno indotto la ridefinizione della teoria. Per analogia col metodo scientifico:

1- si fanno delle osservazioni

2- si formula una teoria che le possa spiegare

3- si progetta un esperimento

4- l’esperimento evidenzia delle lacune nella teoria

5- si raffina la teoria

6- si riesegue lo stesso esperimento.

Il punto (6) è sbagliato! Bisogna progettare un nuovo esperimento. Altrimenti abbiamo trovato quella che si definisce una teoria “ad hoc”.

Da qui la domanda conclusiva: da dove sono stati acquisiti i “nuovi” dataset da utilizzare come “test data”, considerato che il modello ha un orizzonte temporale di decenni?

Allora nessun tipo di modello implementato su computer funziona?

I modelli GCM hanno una difficoltà in più rispetto a quelli utilizzati in altre discipline. I loro risultati possono essere verificati solo dopo 20 o 30 anni. Ciò significa che il loro processo di raffinamento è più difficoltoso. Chi lavora nel campo dell’informatica, ha esperienza che persino software molto più semplici, hanno bisogno di essere migliorati dopo la prima istallazione confrontando il loro funzionamento con quanto atteso. Man mano che si scoprono gli errori, il software viene adeguato e funziona meglio.

Dato il vasto orizzonte temporale, questa fase, comune a tutti i modelli, per i GCM è particolarmente complicata. In altri termini, per i GCM, come per tutti i modelli impiegati per previsioni a lungo periodo, è difficile ottenere nuovi dataset utilizzabili come test data. E’ per questo motivo che, ad una prima analisi, appare ancora prematuro pretendere da essi delle previsioni affidabili.

Conclusioni

Abbiamo visto, in questo articolo e nella prima parte, quanto sia arduo fornire una stima della sensibilità climatica e, di conseguenza, come sia azzardato supporre che le stime fornite godano di un elevato livello di confidenza. Quindi non è anti-scientifico, o irrazionale, o ideologico dubitare del livello di confidenza con cui sono presentate le stime sulla sensibilità climatica. Tuttavia, va sottolineato che un ragionamento del genere non è una prova che esse siano errate. Insomma, stiamo affrontando una tematica tecnica, nulla a che vedere con suggerimenti di politiche di riduzione gas serra, valutazione dei rischi, ecc. La critica all’AGWT riguarda principalmente il concetto che il “debate is over” in merito alle previsioni. La conclusione non è un invito ad abbandonare i GCM, ma a continuare a migliorarli, con la consapevolezza che ci potrebbe essere parecchia strada da fare prima di poterli ritenere adeguati allo scopo.

PERCHE’ E’ RAGIONEVOLE DUBITARE DELLA STIMA SULLA SENSIBILITA’ CLIMATICA – parte I: i confronti col passato

di agrimensore g., con la collaborazione di Fano

La “sensibilità”, in generale, è un parametro che indica come varia una grandezza a seguito della variazione di un’altra grandezza. In matematica è paragonabile alla derivata in un punto di una funzione.

Per quanto riguarda il clima, la sensibilità è spesso definita come quel parametro che ci dice di quanto aumenta la temperatura se raddoppia la concentrazione di CO2 in atmosfera. Più in dettaglio, tale parametro ne comprende due:

1) quello che ci dice di quanto aumentano le radiazioni ricevute (IR) dalla superficie all’aumentare della concentrazione della CO2 in atmosfera (forcing radiativo);

2) quello che ci dice di quanto aumenta la temperatura all’aumentare delle radiazioni che raggiungono la superficie (punto precedente).

Riassumendo, secondo l’AGWT abbiamo che: + CO2 –> + IR –> + T

In questa coppia di articoli ci occuperemo esclusivamente di analizzare il secondo punto, cioè dei problemi inerenti la valutazione dell’aumento delle temperature all’aumentare delle IR ricevute dalla superficie.

Come si è calcolato, fino ad oggi, questo parametro?

In due modi distinti:

– o con i modelli GCM (General Circulation Model)

– o col raffronto col passato.

Il tema dei modelli GCM verrà affrontato nella seconda parta, ove tratteremo dei problemi di V&V, over-fittng, training data vs. test data, variabili di input, confronto previsioni-realtà, ecc.

In  questa prima parte, invece, ci occupiamo di discutere la modalità con cui si è calcolata la sensibilità climatica a partire dai dati del passato.

In sostanza, si è stabilito, con un certo margine di incertezza, che in un certo lasso di tempo (in genere di parecchi anni) si è verificato un certo forcing radiativo che ha portato ad un range di aumento delle temperature del pianeta. A questo punto, si è applicata la le legge trovata nel passato al periodo attuale.

Le stime considerate dall’IPCC per l’aumento di temperatura a fronte di un raddoppio di concentrazione di C02 vanno da 0.1C a oltre 7C, e l’IPCC assume ragionevole il range 2-4,5C. Riporto di seguito la figura, ove sono riportate anche le stime ottenute con modelli GCM, contenuta nel rapporto IPCC:

Fig.1

Come si vede dalla figura, ciò che è stato stimato non è proprio il valore parametro, quanto la probabilità (tramite la funzione densità di probabilità) che il parametro assuma un determinato valore. Già da questi studi si nota una certa discrepanza tra le conclusioni dei vari lavori, ma ne esistono altri che si differenziano ancora di più: Schwarz 2007, stima in 1.1 C +/- 0.5C (poi corretto nel 2008 in 1.9C +/- 1.1C), Shaviv ancora molto meno.

Questo grafico ci dice, tra l’altro, che un aumento minore di 1°C è improbabile per tutte le stime riportate. Ad esempio, per il lavoro di Andronova del 2001, c’è una buona probabilità che il raddoppio della CO2 inneschi un aumento della temperatura media globale di 1.5°C circa

Cosa c’è che non va in questo tipo di ragionamento?

Il clima della Terra può essere esaminato dal punto di vista dell’evoluzione dei sistemi dinamici. Riassumendo la definizione di wikipedia di sistema, sappiamo che possiamo rappresentarlo come

“… una ‘scatola nera’ con ingressi  ed uscite. Lo stato del sistema è descritto da un insieme di variabili, dette appunto di stato che definiscono la “situazione” in cui si trova il sistema ad un certo istante temporale. Gli ingressi agiscono sullo stato del sistema e ne modificano le caratteristiche ovvero i valori in un dato istante temporale: queste modifiche vengono registrate dalle variabili di stato. I valori delle uscite del sistema, solitamente le uniche variabili misurabili (ingressi esclusi) dipendono a loro volta dalle variabili di stato del sistema e dagli ingressi (in maniera più o meno diretta).”

Il senso delle variabili di stato è quello di costituire la memoria stessa del sistema dinamico, cioè le variabili di stato dipendono non solo dagli ingressi ad un certo istante, ma anche dal valore delle stesse variabili di stato in istanti precedenti.

Nel caso della Terra, possiamo immaginare, ad esempio, di essere in una situazione del genere:

Fig. 2a

Non è detto che i sistemi debbano essere qualcosa di particolarmente complesso. Un sistema può essere anche una semplice palla, che prendiamo a calci, su un terreno accidentato In questo caso, ad esempio, possiamo immaginare che il sistema sia di questo tipo:

Fig.2b

I sistemi si possono trovare in equiibrio oppure no, e l’equilibrio può essere stabile o instabile.

Il paragone più semplice per definire uno stato di equilibrio stabile è quello della palla in una buca: se gli si dà un calcio, la palla ritorna nella buca. A meno che il calcio non sia abbastanza forte (o tanti calcetti un appresso all’altro, prima che la palla ritorni indietro) da farla uscire dalla buca: a quel punto la palla uscirà dalla prima buca e si fermerà solo dopo aver trovato un’altra buca (nuovo stato d’equilibrio).

Viceversa, uno stato instabile può essere paragonato a quello della palla in cima ad una collina: basta un piccolo calcetto e la palla si allontanerà.

La Terra si trova, approssimativamente, in un equilibrio stabile. Ad esempio, a seguito dell’eruzione del Pinatubo, per un periodo la media delle temperature globali è diminuita a causa di quanto emesso del vulcano, ma, terminata l’eruzione, al depositarsi delle ceneri, la temperatura è tornata all’incirca come prima.

Nel corso degli anni però la Terra ha attraversato vari stati di equilibrio, passando per Younger Dryas, episodi di snowball earth, periodi caldi, ecc.

Ora, cosa accade quando uno scienziato cerca di scoprire cosa è successo migliaia, o milioni di anni fa a fronte di un forcing sul clima terrestre? Beh, se il forcing è stato abbastanza intenso, troverà che la Terra è passato in un nuovo stato di equilibrio. Viceversa, se il forcing è debole,  sarà difficile  isolare i suoi effetti da quelli prodotti dalla variabilità naturale.

Quindi i lavori per stimare la sensibilità riguarderanno, generalmente, casi nel passato in cui il forcing è stato così intenso che il sistema Terra ha perso il suo precedente equilibrio.

Vi sono anche delle eccezioni, come quelle che riguardano studi sul passato molto recente (es.: reazione del sistema all’eruzione del Pinatubo, risposta degli oceani, ecc.). Per il resto, i casi in cui il sistema nel corso dei millenni ha reagito ad una piccola perturbazione esterna mantenendo l’equilibrio, non sono significativi per gli studi sulla sensibilità, semplicemente perchè non lasciano una traccia chiara.

Facciamo un esempio.

Fig.3

La Terra (o la palla) è rappresentata dal cerchio blu, la freccia rossa indica il forcing intenso ,  la freccia verde la reazione del sistema (Terra o palla che sia) per ritrovare l’equilibrio.

Da questi dati, (intensità del forcing indicato dalla freccia rossa e conseguente risposta del sistema indicato dalla freccia verde) possiamo ricavarne una legge tra forcing (perturbazione) ed evoluzione del sistema (cambiamento della temperatura o spostamento della palla)? Cioè, immaginando di avere i dati su:

–  quanta energia abbiamo impresso alla palla e il percorso che ha fatto o, parallelamente

quanto energia in più ha ricevuto la Terra e la variazione di temperatura

si può ricavare una formula (o meglio, la densità di probabilità del valore di un parametro) che lega:

l’energia impressa –> conseguente spostamento della palla? o

l’energia ricevuta –> la conseguente variazione della temperatura?

La risposta la possiamo immaginare guardando gli effetti di perturbazioni meno intense (freccia arancione): qui la Terra (o la palla) ritorna al punto di partenza. Come si vede non c’è nessuna proporzionalità, nessuna formula, ed in particolare la traiettoria che assumerà la palla dipende dal “tipo di buca” in cui si trova. Quindi è molto complicato trovare una regola, dipende dall’evoluzione del sistema che risponde in maniera diversa in base agli altri input e allo stato in cui si trova.

Com’è possibile ciò?

Questo  avviene quando sul sistema agiscono dei feed-back negativi (controreazioni) che costringono il sistema al suo punto di equilibrio.

Nel caso della palla, il feed-back è la sua stessa posizione rispetto al terreno, a fronte della traittoria. Insieme alla gravità, determina il riposizionamento alla posizione iniziale, se l’intensità del calcio non è troppo forte.

Nel caso del clima, posso immaginare un feed-back dato dal ciclo idrico, cioè dal vapor acqueo. Ora se il vapor acqueo si trasforma in:

–  “nubi medio-basse”, allora avremo un feed-back negativo per aumento dell’albedo

– “gas in atmosfera”, allora avremmo un feed-back positivo perché aumenta l’effetto serra.

Poiché la Terra si è dimostrata abbastanza stabile, almeno nelle ultime migliaia di anni, appare ragionevole che si verifichi la prima ipotesi, ma si può fare un’ulteriore congettura: può darsi che il trasformarsi o meno del vapore in nube dipenda da un fattore esterno, come ad esempio i GCR (cfr. esperimento Cloud al Cern). Ultimamente se n’è parlato anche su CM, a proposito di un nuovo studio http://www.climatemonitor.it/?p=14202

Nell’AGWT, invece vengono descritti molti feed-back positivi, il più importante dei quali è il seguente:

+ CO2  –> + temp –> + CO2  –> +temp –> + CO2 –>…

Il feed-back positivo è proprio di un sistema in uno stato instabile: qualsiasi perturbazione, anche casuale e minima, aumenti  il livello di CO2 o temperatura, conduce ad un incremento di ambedue le grandezze fino a trovare un nuovo equilibrio. In questo caso, è ancora più difficile trovare un legame tra input e output, giacchè uno amplifica l’altro.

Ma il problema di fondo è che anche nel caso di un sistema semplice, come una palla presa a calci su un terreno sconnesso, è sostanzialmente impossibile, soltanto con l’osservazioni di qualche esperienza precedente, trovare la legge universale che regola il processo. Cioè, non c’è una formula che permette di ricavare a fronte di un calcio (rasoterra) la traiettoria della palla: bisogna conoscere il “terreno” in ogni suo punto, altrimenti non ci si riesce.

E’ come se volessimo stimare il risultato finale di una partita, basandoci sulla serie storica degli incontri tra le due avversarie. Anche se i giocatori fossero sempre gli stessi, quanto può essere efficace tale strategia, senza conoscere la forma fisica degli atleti, le motivazioni, ecc.? Persino all’interno di un periodo di tempo breve, due squadre che si affrontano ottengono risultati completamente diversi tra “andata e “ritorno”, non tanto per l’alea, quanto per il diverso rendimento dei giocatori (è diverso il loro “stato”).

In sostanza, a livello teorico è lecito provare a trovare una somiglianza (likelihood) di comportamento delle variabili di stato in due diversi istanti basandosi sui dati passati, ma è necessario avere la conoscenza più completa possibile del sistema.

Riportato alla sensibilità climatica, questo significa che bisogna conoscere come funziona nella sua interezza il sistema Terra per provare a stimare tale parametro. Presumibilmente, non basta confrontarsi col passato,  è necessario comprendere ogni meccanismo che possa influenzare il clima.

Questo non significa che gli scienziati non abbiano fatto un buon lavoro, o, peggio siano in malafede. Semplicemente, i loro risultati non vanno considerati come definitivi, ma qualcosa da dover comprovare tramite una fase sperimentale, che però è estremamente difficile perchè non abbiamo a disposizione un altro pianeta da laboratorio.

E quindi?

N.Scafetta (Duke University) scrive così:

http://www.fel.duke.edu/~scafetta/pdf/21mo-secolo.pdf

Secondo l’IPCC se la concentrazione atmosferica di CO2 raddoppia la temperatura media del pianeta potrebbe aumentare tra 1,5 e 4,5 oC. La distribuzione della sensibilità climatica al CO2 (…) varia entro un intervallo perfino più largo di 1,5 e 4,5 oC. Se gas serra come la CO2 sono la maggiore causa del riscaldamento globale, una sensibilità climatica alla CO2 con un errore minimo del 50% non può che suscitare forti perplessità sulla robustezza delle interpretazioni dei cambiamenti climatici dell’IPCC. Questo errore macroscopico è dovuto al fatto che non si sanno modellare bene i principali meccanismi climatici di feedback, cioè il vapore acqueo e le nuvole.

Inoltre, come si vede in fig.1, per ogni studio i valori più probabili non sono nemmeno vicini ai valori medi (max di densità rispetto al valore segnato dal pallino). Prendendo per buoni i lavori dei vari scienziati riportati e anche non considerando i lavori degli scienziati considerati scettici, diventa davvero difficile, a fronte di risultati così variabili, trarne delle indicazioni.

Riassumendo, benché non proprio impossibile in via teorica, in pratica, dal confronto col passato, appare davvero complicato trovare una legge affidabile che lega il forcing radiativo con i suoi effetti sulla temperatura in un sistema così complesso come la Terra. Se si vuole ottenere un ragionevole livello confidenza della stima prodotta, bisognerebbe pensare ad un esperimento (attività sperimentale), che possa comprovarla.

In assenza di questo, si è trovata un’altra possibilità: l’uso di modelli GCM che cercano di simulare il sistema Terra, o meglio individuare dei valori statistici affidabili di alcune grandezze fisiche proprie del clima.

Ma di questo parleremo nella seconda parte.

SECONDO ME LA TERRA SUDA, MA NON HA LA FEBBRE ALTA

di agrimensore g.

Pur essendo scettico sull’AGWT, non dubito che l’effetto serra esista. Cioè, l’atmosfera, con i suoi gas serra agisce sulla superficie terrestre come una coperta (qualcuno parla di effetto coperta, come ha sottolineato l’articolo di Claudio Costa su NIA): parte delle radiazioni che emette la superficie terrestre le vengono restituite dall’atmosfera. Questo effetto permette alla temperatura del pianeta di rimanere all’incirca a 15C (o 288K). Per riassumere i termini della questione, inserisco di seguito lo schema riportato da Wikipedia

Fig. 1

Fin qui, personalmente, non ho motivi per essere perplesso. Concettualmente le cose funzionano. Però, ATTENZIONE: nella figura tratta da wikipedia i numeri tornano, ma alla parte emessa dalla superficie (quella in marrone chiaro e scuro che piega a sinistra) manca la didascalia. Cosa esce dalla superficie terrestre? Perché solo “350” (tutte le misure sono espresse in W/m^2) sono assorbiti dai gas serra? Cosa sono gli altri “102”, rispetto ai “452” emessi?

Leggeremo sotto le risposte. Ora, ci chiediamo cosa succede se immettiamo gas serra nell’atmosfera, cioè rendiamo più spessa la coperta, o, se volete, mettiamo un’altra coperta (magari molto più sottile) sopra l’attuale.

Bene, consideriamo la nostra esperienza personale. Immaginiamo di farci una bella dormita avvolti da una coperta e di aver raggiunto il nostro equilibrio termico. C’è il termosifone acceso, col termostato a 20 gradi, quindi abbiamo scelto una coperta molto leggera. Stiamo bene e dormiamo. Purtroppo quando siamo ancora nel mondo dei sogni, qualcuna ci mette sopra un’altra coperta, diciamo pure un piumone (tanto per esagerare). Adesso, ci vengono riflesse dalle coperta molte più radiazioni.

Riprendendo il paragone col sistema Terra,  siamo nel caso in cui si rilascia in atmosfera CO2 (la coperta più spessa:) la parte indicata nel disegno di fig.1 come “directly radiated from surface” diminuirebbe mentre la parte “greenhouses gas absorption” aumenterebbe.  Però tutto l’equilibrio si è perso, nel senso che l’atmosfera adesso dovrà irradiare di più e… insomma, bisogna che succeda qualcosa per ritrovare l’equilibrio perduto.

Questo precisazione di effetto serra à effetto coperta, è in genere molto cara ai sostenitori dell’effetto serra. Ad esempio, il prof. Bardi (che ogni tanto legge NIA) ne scrive in questo articolo, già citato dall’articolo di Costa: http://aspoitalia.blogspot.com/2007/12/leffetto-coperta-gi-effetto-serra.html, ove si spiegano alcuni dei fondamentali principi fisici che regolano il clima.

Bene, riprendiamo con la nostra esperienza virtuale.

Quando ci sveglieremo la mattina, il nostro corpo si sarà scaldato? Cioè, se prendiamo il termometro, scopriremo di avere la febbre? Beh, io immagino che anziché i soliti 36C, forse avremo 36.5C, magari, 36.8C, ma non penso scopriremo di avere la febbre. Più probabilmente, scopriremo di aver sudato durante la notte. Già, perché, com’è noto, il nostro corpo usa uno stratagemma per riportarsi all’equilibrio: suda, cosicché il calore in eccesso viene ceduto come calore latente, senza alzare la propria temperatura. L’alternativa, quella di emettere più radiazioni, comporta, per la legge di Boltzmann, la necessità di aumentare la temperatura (con danni fisiologici, a cominciare dal cervello).

E la Terra che farà? Una volta resa più spessa la coperta, quindi aumentando le radiazioni in ingresso, come reagirà? Per riprendere l’analogia sopra descritta, come ritroverà il suo equilibrio? Mi sembra ci siano due possibilità, che possono anche coesistere.

1) Emetterà più radiazioni e quindi innalzerà la temperatura (legge di Boltzmann) oppure

2) Utilizzerà lo stratagemma del calore latente (+ vapore acqueo) per cederlo all’atmosfera (+ pioggia)

Nel secondo modo, la superficie riesce a trasferire il calore in eccesso  senza alzare la temperatura. Il prof.Miskolczi, come riportato nell’articolo di NIA (http://daltonsminima.wordpress.com/2010/06/11/ex-scienziato-della-nasa-dimostra-che-non-esiste-l%C2%B4effetto%C2%A0serra/), ha dato la sua risposta: la Terra, così come ogni pianeta dotato di atmosfera semitrasparente (la coperta) e riserve di gas serra, cioè gli oceani, (i liquidi attraverso i quali si suda) non si scalda, piuttosto diminuisce la quantità di vapor acqueo in atmosfera per reagire all’incremento di CO2 e tornare in equilibrio.

Rimane ancora un altro punto da verificare. Premesso che è plausibile una maggiore evaporazione, chi ci dice che il vapore acqueo, non rimanga in questo stato contribuendo ad aumentare i gas serra (lo spessore della coperta)? Chi ci dice che si formino le nubi e piova? In fondo, il cuore dell’AGWT è proprio questo: prevede un feed-back positivo( +CO2 –> +effetto serra  –> +caldo –>  +vapor acqueo –> +effetto serra –> +caldo –> +…) dovuto al vapor acqueo.

Beh, io non credo molto ai feed-back positivi se un sistema ha dimostrato la propria stabilità (mi sembrano più probabili quelli negativi), e poi sono affascinato dalla teoria di Svensmark che dice che la formazione delle nubi è favorita dalla quantità di raggi cosmici in ingresso in atmosfera. Poichè tale ingresso è a sua volta modulato dall’attività solare, la nostra stella diventa decisiva per regolare il clima terrestre.

Tuttavia, queste sono solo delle mie opinioni, ci sono scienziati che hanno affrontato e stanno affrontando la questione da vari punti di vista. Quello che vorrei mettere in evidenze è che, per quanto mi riguarda, il dibattito sull’AGWT dovrebbe innanzi tutto approfondire questi temi, prima di poter dire che essa sia una teoria consolidata.

Quasi dimenticavo… dobbiamo scoprire che fine ha fatto la didascalia mancante della figura 1. Fortuna che Internet è grande, così ho trovato una figura più completa:

fig.2: schema di Kihel, Trenberth, 1997

Questa figura è piuttosto famosa (molti lettori già la conosceranno) e la trovata anche sotto wikipedia, oltre ad averne parlato in un precedente post di NIA.

Se facciamo il confronto con la fig.1, troviamo la natura dei “452” uscenti dalla superficie: “350” sono le radiazioni emesse dalla superficie, “24” il calore termale e “78” il calore latente. Ora le due possibilità che ha il pianeta per ritrovare l’equilibrio sono un po’ più chiare:

1) aumentare le radiazioni emesse, cioè i “390” di cui fanno parte i 350 (avere la febbre);

2) aumentare l’evaporazione, cioè i “78” (sudare), e con essi la parte riflessa dalle nubi.

Un’idea di come stanno andando le cose, ce la può dare l’articolo di Science

How Much More Rain Will Global Warming Bring” (Frank J. Wentz,* Lucrezia Ricciardulli, Kyle Hilburn, Carl Mears) del 12/7/07, che potete leggere qui:

http://www.remss.com/papers/wentz_science_2007_paper+som.pdf

e che comincia così:

Climate models and satellite observations both indicate that the total amount of water in the atmosphere will increase at a rate of 7% per kelvin of surface warming. However, the climate models predict that global precipitation will increase at a much slower rate of 1 to 3% per kelvin. A recent analysis of satellite observations does not support this prediction of a muted response of precipitation to global warming. Rather, the observations suggest that precipitation and total atmospheric water have increased at about the same rate over the past two decades.

In sostanza,  i modelli hanno sottostimato le precipitazioni atmosferiche. Ecco perchè penso che la Terra sudi, ma non abbia la febbre alta.

Prima di concludere, ritengo opportuno precisare che:

a) il rif. al prof. Bardi è dovuto al fatto che è esperto di scienza del clima e ogni tanto legge gli articoli di NIA (cfr. http:/ugobardi.blogspot.com/2010/11/astrofili-e-climofobi-un-altro-autogoal.html), quindi, se ne ha voglia e tempo, può commentare chiarendo qualche aspetto, ed eventualmente, sottolineando gli errori;

b) non entro nel merito della discussione se sia giusto e in che misura ridurre le emissioni di CO2 o su come ridurre i rischi, nè tanto meno voglio suggerire che non esistono rischi; più in generale, non ho risposte, ho solo interrogativi;

c) l’articolo riporta le mie congetture personali, rispetto a quanto mi è capitato di leggere sul tema; tra l’altro ho privilegiato la leggibilità al rigore scientifico; quindi in alcun modo questo articolo intende essere un riassunto sullo stato dell’arte del dibattito AGW;

d) non metto in dubbio l’attuale aumento delle temperature globali (GW), pongo solo delle questioni su come possa evolvere in futuro.

Il rapido riscaldamento globale del pianeta durante il paleocene ha causato una esplosione della biodiversitá.

Una delle previsioni spaventose fatte circa l’impatto del riscaldamento globale è l’estinzione di molte specie viventi che porterebbe ad una crisi della biodiversitá.

Come la maggior parte degli effetti speculativi sul riscaldamento globale, questa previsione non solo è senza fondamento scientifico, è proprio arretrata.  Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Science, studiando l’impatto del rapido riscaldamento globale nel periodo limite tra  Paleocene-Eocene, dimostra che si é verficata una rapida diversificazione della foresta tropicale, senza nessuna estinzione delle piante. Inoltre, la diversità sembrava aumentare con temperature più elevate, contraddicendo precedenti ipotesi che la flora tropicale dovrebbe soccombere se le temperature diventano eccessive. La foresta pluviale tropicale era in grado di fiorire sotto temperature elevate e alti livelli di biossido di carbonio atmosferico, in contrasto alla speculazione che gli ecosistemi tropicali siano stati gravemente danneggiati dal calore.

Il Paleocene-Eocene Thermal massima (PETM) di 56.300 mila anni fa è stato un episodio unico di rapido riscaldamento globale (~ 5 ° C). Questo caldo periodo del lontano passato é spesso usato come un paragone analogico per il futuro del clima globale da parte di coloro che amano e vendono i cambiamenti climatici catastrofici futuri.  Anche se ci sono poche possibilità che le emissioni umane di CO2 possano causare un tale evento  i sostenitore dell´effetto serra catastrofico minacciano che é “sicuro” che un secondo periodo PETM possa accadere e lo fanno per sostenere la loro agenda socioeconomica per il mondo.  Presumibilmente, un replay della PETM porterebbe con sé ogni sorta di conseguenze ambientali disastrose.

Ora, un certo numero di queste terribili previsioni sulla devatazione della natura  fatte dagli allarmisti del riscaldamento globale si sono rivelate come scienza spazzatura. In un nuovo studio pubblicato, “ Effects of Rapid Global Warming at the Paleocene-Eocene Boundary on Neotropical Vegetation ,” Carlos Jaramillo et al. presentano le loro analisi sugli effetti   del rapido riscaldamento globale nel corso del Paleocene-Eocene Thermal  Maximum (PETM) di  56,3 milioni anni fa. Ecco come hanno introdotto il loro lavoro :

Abbiamo studiato la risposta di questa foresta tropicale al rapido riscaldamento, valutando le registrazioni palinologiche di tre sezioni stratigrafiche nella parte orientale della Colombia e Venezuela occidentale. Abbiamo osservato un rapido e distinto aumento  nella diversità delle piante  originali con una serie di nuove specie, per lo più angiosperme, che si sono sommati allo stock esistente di flora nel Paleocene.  Non vi è alcuna prova di un rafforzamento dell´ aridità nella zona  neotropicale settentrionale.  La foresta pluviale tropicale è stata in grado di persistere in presenza di temperature elevate e alti livelli di biossido di carbonio atmosferico, in contrasto alle speculazioni che gli ecosistemi tropicali sono state gravemente compromessi da stress da calore.

I promotori del cambiamento climatico catastrofico hanno spesso messo in guardia che l’aumento della temperatura globale potrebbe decimare il mondo naturale, abbattendo specie animali e della flora, lasciando la diversità biologica del mondo pericolosamente impoverita. Sono stati presi in considerazione i più vulnerabili habitat e cioé le foreste pluviali del mondo, quelle calde umide,  veri bastioni di diversitá della  vita della giungla. Ci hanno detto per anni che se le piogge diminuissero a causa del AGW  le foreste sarebbero morte e con loro gli animali indigeni di queste zone. Ora sappiamo che ciò è ancora un´ altra favola degli allarmisti climatici.


Le foreste pluviali del mondo sono serbatoi di diversità.

“Gli sforzi per comprendere l’impatto dei cambiamenti climatici sugli ambienti terrestri si sono concentrati su località di media e alta latitudine, ma poco si sa degli ecosistemi tropicali nel corso del PETM,” scrivono gli autori. “Il cambiamento di temperatura tropicale è scarsamente vincolante, ma, data l’entità della variazione di temperatura  in altre zone, si pensa che gli ecosistemi tropicali  possano aver subito ampiamente un impatto  perché le temperature medie si suppone abbiano superato la tolleranza al caldo degli ecosistemi ‘.” Ma secondo i dettagli dello studio, questo non é certamente avvenuto.

I ricercatori hanno esaminato i dati provenienti da tre siti terrestri tropicali PETM dalla Colombia e Venezuela.  La mappa sottostante mostra la posizione nel tardo Paleocene delle sezioni studiate (mappa dopo CR Scotese). Si noti che le Ande del nord non si erano ancora sollevate e la maggior parte dell’America centrale era ancora sott’acqua.


Localizzazione geografica delle sezioni studiate.

Nei due dei luoghi, etichettati Mar 2X e Riecito Mache, la diversità vegetale è stata dedotta da antichi pollini. Questi dati mostrano la diversità della flora relativamente bassa durante il tardo Paleocene, seguito da un aumento significativo durante il PETM. La poca diversitá della flora nel Paleocene seguita da  un aumento della diversità nell´inizio dell´ Eocene era stato precedentemente osservato in varie zone tropicale del Sud America, ma i tempi dei cambiamenti e la diversità non erano  stati stabiliti con precisione.

Mentre le specie hanno continuato ad  estinguersi durante il PETM, come hanno fatto fin dall’inizio della vita sulla Terra, non c’era nulla di straordinario nella misura  di estinzione rispetto ai periodi di tempo vicini.  E mentre il tasso di estinzione è rimasto abbastanza costante,  si é verificato l’aggiunta di nuova specie, denominata  tasso di origine,  durante il calore improvviso della PETM.  I tassi di estinzione e della nascita di nuove specie sono riportate nella figura qui sotto, tratte dalla relazione.


Extinction and origination rates. Estinzione e tassi di origine.

Gli autori fanno notare: “Molti hanno sostenuto che le comunità tropicali vivono vicino alle loro  ottimali situazioni climatiche e che temperature più alte potrebbero essere nocive per la salute degli ecosistemi tropicali. Infatti, il riscaldamento tropicale durante il PETM si ipotizza che abbia   prodotto condizioni intollerabili per gli ecosistemi tropicali, anche se da 31 ° a 34 ° C è ancora entro il limite di tolleranza di temperatura delle foglie di alcune piante tropicali. ”

Tali convinzioni largamente diffuse sono state definitivamente smontate.  Naturalmente, questa notizia non è una sorpresa per molti scienziati, in particolare per coloro che effettivamente studiano gli effetti della temperatura e di anidride carbonica per le piante. Jon Lloyd and Graham D Farquhar hanno osservato in  Philosophical Transactions of the Royal Society B ,  ” Non abbiamo trovato nessuna  evidenza, per le foreste tropicali attualmente esistenti,  che esse siano ‘pericolosamente’ lontane dalla loro  fascia  di temperatura ottimale.”

“Esperimenti in serra hanno dimostrato che alti livelli di CO 2, insieme con alti livelli di umidità del suolo e temperature elevate, migliorano le prestazioni degli impianti,  ed è possibile che l’aumento nel Paleogene dei livelli di CO 2 hanno contribuito al loro successo”, nota Jaramillo et al.  Questo il modello ecologico che diverse autorità hanno sottolineato in passato: la CO 2 è il cibo per le piante.  Finché non vi è insufficiente precipitazione, e lo studio ha rilevato che le precipitazioni non si sono attenuate, le piante possono stare molto bene con elevati livelli di anidride carbonica.

Questa conclusione non è sorprendente, dal momento che l’autore principale Jarmillo, scrivendo con Milton J. Rueda e Germán Mora, aveva in precedenza riferito che esiste “una buona correlazione tra le fluttuazioni della diversità e i cambiamenti della temperatura globale, il che suggerisce che il cambiamento climatico tropicale può essere direttamente la guida del modello delle diversità osservate. “Questa correlazione è stata conosciuta dai paleobiologi da molto tempo (vedi” Cenozoico Plant Diversità nel neotropicale “nel 31 marzo 2006, numero di Science) Naturalmente, with fluctuating temperatures come fluctuating CO 2 levels .


Il calore del PETM ha aiutato le orchidee a fiorire.

Questo nuovo studio su Science conclude: “La diversità complessiva e l´analisi della composizione suggeriscono che l’insorgenza del PETM è concomitante con un aumento della diversità  con l’aggiunta di molte specie (e con alcune nuove famiglie) rispetto alle  specie  preesistenti nel  Paleocene”. Infine per di piú :  “Questo cambiamento nella diversità fu permanente e non transitorio, come è documentato dalle temperature del Nord America.” Non fu  un fuoco di paglia, e  l’improvviso aumento delle temperature durante il PETM ha effettivamente causato un incremento duraturo nella diversità.

Come al solito, gli allarmisti climatici non solo hanno sbagliato ma hanno  torto marcio. Temperature più elevate a livello mondiale ed elevati livelli di CO 2 sono state buone per la natura 50 milioni di anni fa e di certo non danneggia la natura oggi. Infatti, uno degli effetti del riscaldamento osservato nella PETM è stata la diffusione delle orchidee.  Forse l’IPCC odia segretamente i fiori….

Indipendentemente da ciò, il mito che più elevati livelli di CO 2 e di alte temperature distruggono le foreste pluviali tropicali ha dimostrato di essere l´ennesima bufala e la solita disinformazione degli allarmisti climatici.

SAND-RIO

Tratto da: http://theresilientearth.com/?q=content/rapid-paleocene-global-warming-caused-diversity-explosion