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IL POLO NORD SI SCIOGLIE E LA COLPA È SOLO……. (PARTE I)

 

É un dato di fatto, il nostro amato polo nord sta soffrendo molto in questi ultimi anni. I ghiacciai Groenlandesi stanno perdendo pezzi, la banchisa artica estiva è ridotta ad un colabrodo, e la colpa di tutto questo è solo nostra. Ce l’hanno detto in tutte le salse, ce l’hanno ripetuto in moltissime occasioni: il polo nord si scioglie ad una velocità impressionante e la colpa è solo ed esclusivamente del riscaldamento globale di origine antropica . Negli ultimi anni, dopo i proclami degli scienziati e dei giornalisti, sono addirittura intervenute le massime autorità per spiegarci questo facile concetto e per metterci al corrente della delicata situazione. Quindi ad oggi, chi non avesse ancora afferrato la questione, non può che essere una persona “stupida”. E proprio a voi “stupidi” voglio dare un ultima possibilità di “redenzione”, offrendovi, in via del tutto gratuita, un corso accelerato online organizzato e condotto da persone molto preparate in materia:

Allarme scioglimento ghiacci dell’artico

Se neanche ora vi siete convinti, bè allora siete un caso patologico, un po’ come lo sono io. E già perché il sottoscritto, oltre ad essere “stupido” come una cozza, è anche diffidente di natura.
Nel caso in esame, ci sono un paio di cose che non mi ha mai convinto fino in fondo, ed in particolare:
dando per assodato che lo scioglimento dell’artico sia da imputare solo all’azione umana, come è possibile che i ghiacci marini abbiano subito un calo significativo solo negli ultimi 10-15 anni, considerando che il problema dell’effetto serra di origine antropica esiste ormai da svariati decenni? E soprattutto, dando per scontata la stessa ipotesi iniziale, come è stato possibile registrare il vero tracollo della banchisa artica proprio in concomitanza degli anni in cui il global warming subiva una brusca frenata (inserendo anche una leggera retromarcia)?
Ebbene queste perplessità mi hanno spinto ad indagare e ad intraprendere una lunga ricerca che fortunatamente ho avuto la possibilità di condurre insieme all’articolista NIA, nonché mio grande amico, Andrea Zamboni.
Preannuncio che il tema è abbastanza complesso. pertanto, per non dilungarmi troppo e per ottenere la massima comprensione anche da parte dei meno “esperti” , cercherò di sintetizzare e semplificare al massimo i concetti (anche se questo mi porterà a tralasciare aspetti anche importanti).
Procediamo con ordine. Conosciamo un po’ tutti l’andamento storico della banchisa artica. In particolare sappiamo che fino ai primi anni 90 non si era registrato alcun calo “significativo” in termini di minima estiva estiva, in quanto il trend vedeva un andamento “leggermente” e progressivamente decrescente. Un primo calo importante si è registrato solo nel 1995 ed in generale nella seconda metà degli anni 90′. Tuttavia, all’inizio degli anni 2000 la situazione era ancora relativamente buona. In particolare nel 2001 ancora si registrava una discreta estensione estiva dei ghiacci (intorno ai 7 milioni di Kilometri quadrati). Negli anni successivi invece è successo qualcosa che ha interrotto bruscamente l’andamento sino ad allora registrato, portando la banchisa artica estiva a subire gravi perdite. L’altra cosa che sappiamo è che questo “qualcosa” si è manifestato con estrema ferocia a partire dalla seconda metà del primo decennio 2000, quando la banchisa estiva ha subito un tracollo apocalittico, fino ad arrivare a toccare, nell’anno in corso, il valore minimo di 3,4 milioni di Km^2. Detta in soldoni, la banchisa artica estiva si è dimezzata in un tempo record di 10 anni.

 


Figura 1. Serie temporale dei valori di estensione minima annuale della banchisa artica misurati dai satelliti.

 

A questo punto ci chiediamo: che tipo di fenomeno può aver indotto istantaneamente un incremento della velocità di fusione pari al 350%, portando la banchisa estiva quasi a scomparire in pochissimo tempo e proprio negli anni in cui il riscaldamento globale ha smesso di salire? É possibile che si tratti dello stesso fenomeno (effetto serra di origine antropica), che presumibilmente ha causato uno scioglimento lento e graduale per svariati decenni?
Io che sono una persona estremamente “stupida” dico di no: è evidente che si tratta di un fenomeno a se stante, subentrato nell’ultimo decennio (anche se ha fatto un prima timida apparizione qualche anno prima), e che è stato in grado di accelerare in maniera mostruosa il processo di fusione che era già in atto. Ma di cosa si tratta?
Nel corso delle nostre ricerche ci siamo da subito imbattuti in qualcosa di molto interessante: abbiamo scoperto che Stati Uniti e Russia stanno collaborando da diversi anni in una campagna di monitoraggio dello Stretto di Bering. In queste spedizioni, attraverso l’ausilio di particolari sonde, vengono costantemente monitorati i flussi d’acqua entranti ed uscenti dal bacino artico attraverso lo stretto di Bering nel corso dell’intera stagione estiva.

 


Fig.2. La foto ritrae una delle navi russe utilizzate nella campagna di monitoraggio. Nello specifico si tratta della nave di ricerca guidata dal Professor Khromov.

 

Ebbene da queste ricerche sperimentali è emerso un dato molto particolare: a partire dal 2001 si è cominciato a registrare un anomalo e progressivo aumento dei flussi di acqua calda pacifica entranti nel bacino artico attraverso la porta di Bering. Tale situazione è ben rappresentata dal seguente diagramma:

 


Fig.3. Andamento della portata media annua di acqua calda pacifica entrante nel bacino artico attraverso lo stretto di Bering (nel corso della stagione estiva). L’unità di misura adottata è lo Svedrup (1Sv=10^6*m^3/s)

 

Come ben si vede dal grafico, a partire dal 2001, i flussi d’acqua calda pacifica entranti nel polo sono aumentati vertiginosamente ed in maniera abbastanza continua. Un primo record si è registrato nel 2004, ma al 2007 spetta il record di sempre (da quando ovviamente si effettuano le misure) . Potrete poi notare come, proprio a partire dal 2007, i flussi entranti si sono mantenuti sempre su livelli molto elevati senza subire alcuna deflessione, fino ad arrivare all’estate 2011, quando si è sfiorato il record segnato quattro anni prima. Manca ancora il dato ufficiale del 2012, ma non è difficile pensare che si sia registrato un nuovo record storico. In conclusione, in soli 10 anni, la quantità d’acqua calda di provenienza pacifica entrante nel polo attraverso lo stretto di Bering è praticamente raddoppiata. Ciò vuol dire che, al dimezzamento della banchisa artica è corrisposto, nello stesso periodo, un raddoppiamento dei flussi di calore entranti nel bacino artico. Ed inoltre, proprio negli anni in cui si sono registrati i picchi assoluti dei flussi di calore entranti, l’estensione estiva della banchisa artica ha fatto registrare i minimi storici (2007, 2011 e molto probabilmente 2012).
A questo punto è doveroso porsi due fondamentali domande:

• quale fenomeno può aver indotto uno stravolgimento così importante ed improvviso della circolazione oceanica interna e limitrofa al bacino artico?

• detto stravolgimento della circolazione oceanica può da solo spiegare il rapido scioglimento dei ghiacci artici? Oppure l’incremento dei flussi d’acqua calda entranti nel bacino artico contribuisce, insieme ad altri fattori, al processo di riduzione della banchisa artica?

Nella parte che segue cercheremo di dare risposta a questi due interrogativi.

 

Riccardo e Zambo

UN NUOVO MODELLO CLIMATICO ALLA BASE DELLA PEG: PARTE VI

Un saluto a voi, popolo di NIA.
Come già anticipato, nella presente Parte cercheremo di individuare assieme i fenomeni che portarono al raffreddamento climatico dell’emisfero boreale noto come Piccola Era Glaciale. In altre parole, sulla base di quanto finora imparato in merito alle più importanti dinamica atmosferiche a scala emisferica, tenteremo di rintracciare quel meccanismo avviato e promosso dalla bassa attività solare ed in grado di apportare nel lungo termine considerevoli modifiche all’atmosfera terrestre.
Tuttavia, prima di procedere con l’analisi consentitemi di mostrarvi una cosa molto interessante, che mi servirà per ricollegarmi direttamente a quanto detto nei precedenti appuntamenti.
Qui di seguito riporto le immagini relative all’andamento dell’indice NAM nelle tre passate stagioni invernali (compresa quella attuale):

Stagione 2009-2010:

Stagione 2010-2011:

Stagione 2011-2012:

Brevemente, Il NAM costituisce un pattern di variabilità climatica a scala emisferica, che descrive lungo il profilo verticale atmosferico (dalla troposfera alla stratosfera), l’andamento dell’intero Vortice Polare (VP). I colori “caldi” corrispondono ad un VP debole (valori negativi del NAM), mentre i colori “freddi” individuano un VP estremamente compatto, freddo e contraddistinto da elevate velocità zonali (valori positivi del NAM). Dalle immagini si vede chiaramente come, l’andamento del VP alle basse quote (Vortice Polare Troposferico) riflette perfettamente l’andamento del Vortice Polare Stratosferico (VPS).
Senza entrare troppo nel dettaglio, ricorderete come nella stagione invernale 2009-2010 si registrarono valori negativi dell’indice AO da record per via di UN VPT ridotto a brandelli per l’intera stagione. La conseguenza fu quella di avere un inverno estremamente dinamico, nevoso e freddo sull’Europa come non si vedeva da anni. L’indice NAM risultò fortemente negativo dall’inizio alla fine della stagione invernale.
Per chi si ricorda, l’inverno 2010-2011 ebbe una doppia faccia, nel senso che nella prima sua fase (fine novembre-metà gennaio), il gelo e la neve fecero da padroni in Europa (addirittura si parla di uno dei mesi di dicembre più freddi di sempre), mentre la seconda parte risultò estremamente statica e mite. Notate dalla carta come l’andamento dell’indice NAM rifletta questa situazione.
L’inverno attuale, neanche a dirlo, ha avuto un andamento simile ma opposto. Anche in quest’ultimo caso l’indice NAM riflette alla lettera detto andamento.
Tutto questo per ribadire ancora una volta un concetto fondamentale, che ancora non tutti hanno bene in mente:
anche se non tutti gli eventi di gelo in Europa sono correlate a forti eventi di Stratwarming, il Vortice Polare Stratosferico (VPS) gioca sempre un ruolo fondamentale. In altri termini, le vicende della stratosfera polare (temperature e velocità dei venti zonali), anche in assenza di fenomeni eclatanti, hanno sempre una valenza cruciale nelle dinamiche meteo invernali. Infatti, come è stato più volte ribadito, in presenza di elevate velocità zonali stratosferiche (VPS compatto), le onde di Rossby non si propagano e non riescono ad acquisire quelle grandi ampiezze e lunghezze tipiche delle onde stazionarie e retrograde. Pertanto né il freddo da nord, né il gelo da est arriveranno mai in presenza di un Vortice Polare Stratosferico compatto (colori blu nel grafico NAM). Infine anche la figura dell’anticiclone termico russo siberiano è strettamente correlata alla debolezza del Vortice Polare Stratosferico.
Nei precedenti appuntamenti abbiamo visto come l’attività solare gioca un ruolo chiave nell’ambito delle dinamiche stratosferiche polari, regolando la circolazione atmosferica nell’ambito delle regioni equatoriali. Infatti, l’attività solare è in grado di modulare l’intensità della circolazione meridiana stratosferica nota come Brewer Dobson Circulation (BDC) e di interferire nell’intensità e nelle caratteristiche dell’attività convettiva equatoriale. Questi due fattori sono quelli in grado di regolare le caratteristiche del VPS (temperature e velocità dei venti). Nello specifico abbiamo visto come la bassa attività solare sia responsabile di un anomalo rafforzamento della BDC, nonché di un rinvigorimento dell’attività convettiva equatoriale. Entrambi le circostanze favoriscono un VPS (VP in generale) fortemente disaggregato con frequenti episodi gelidi per l’Europa (medie latitudini in generale).
Infine abbiamo osservato come, questo legame non sia del tutto lineare, in quanto influenzato dall’andamento della QBO e del ciclo ENSO. A quest’ultimo proposito rimando alla lettura delle ultime due Parti:

Parte IV:

http://daltonsminima.altervista.org/?p=17306

Parte V:

http://daltonsminima.altervista.org/?p=18000

Procediamo ora con il discorso.
Iniziamo ad osservare come la stratosfera polare artica abbia subito per tutto il XX Sec. un progressivo ed inesorabile raffreddamento. Le cause di questo andamento sono da rintracciare essenzialmente in due fenomeni che sono risultati concomitanti nel suddetto secolo:

1) forte incremento dell’attività solare;
2) immissioni di sostanze inquinanti antropogeniche quali i clorofluorocarburi (CFC).

Infatti come è stato spiegato nella precedente Parte III, l’aumento dell’attività solare è responsabile nel lungo termine di una diminuzione dell’intensità media della Brewer Dobson Circulation (BDC), con conseguente isolamento e raffreddamento medio del Vortice Polare Stratosferico (VPS). Come si è visto inoltre tale circostanza comporta una perdita media di ozono nello stesso VPS. A sua volta l’immissione in atmosfera dei CFC ha aumentato notevolmente la velocità del processo di raffreddamento della stratosfera polare.
I clorofluorocarburi (CFC) sono composti organici semplici in cui tutti gli atomi di idrogeno sono stati sostituiti dagli alogeni cloro e fluoro. La radiazione ultravioletta altamente energetica proveniente dal sole è assorbita dall’ozono stratosferico e, di conseguenza, non penetra nella troposfera. Questo significa che la luce ultravioletta che raggiunge la superficie terrestre, è troppo debole per distruggere i CFC ivi presenti. Tuttavia, siccome i CFC hanno un’emivita atmosferica così lunga, delle quantità significative riescono a raggiungere la stratosfera dove la radiazione ultravioletta è abbastanza forte da scinderli nei radicali cloro e fluoro che sono molto reattivi. Questi radicali sono in grado di distruggere l’ozono. Questo processo, tuttavia, non porta necessariamente ad una forte deplezione dell’ozono perché i radicali cloro (i principali responsabili per la rimozione dell’ozono) subiscono anche altre reazioni che dipendono dalle condizione meteorologiche. Sebbene infatti l’ozono stratosferico sia rimosso dalla reazione con radicali cloro e fluoro a tutte le latitudini, il buco dell’ozono si forma solo ai poli. La spiegazione del perché di questo fenomeno è molto semplice. La decomposizione dei CFC crea radicali di monossido di cloro (CIO). Questi possono reagire con il biossido di azoto (NO2) per formare nitrato di cloro (CIONO2) o con il monossido di azoto (NO) e con il metano (CH4) per formare l’acido cloridrico (HCI) e acido nitrico (HNO3). Sia HCI che CIONO2 non reagiscono con l’ozono ma sono composti piuttosto stabili e rimuovono il cloro dai cicli di distruzione dell’ozono. Tuttavia, se le temperature nella stratosfera polare artica raggiungono temperature molto basse (VPS molto isolato), l’acido nitrico e l’acqua formano le nuvole di ghiaccio stratosferico. Sulla superficie del ghiaccio, l’acido cloridrico e CIONO2 reagiscono tra di loro per dare l’acido nitrico e cloro molecolare (CI2). Il cloro molecolare (CI2) è una molecola stabile che non reagisce con l’ozono. Tuttavia, è facilmente distrutta dalla radiazione ultravioletta (in arrivo nella fase finale dell’inverno boreale) proveniente dal sole per formare due radicali cloro che possono in seguito attaccare e distruggere l’ozono. Durante l’inverno, nella stratosfera polare possono essere prodotti livelli elevati di cloro molecolare (Cl2). Solo nella fase finale dell’inverno, il sole riappare e la radiazione solare ultravioletta aumenta. Questa radiazione ultravioletta scinde il Cl2 in radicali cloro, che distruggono poi l’ozono con conseguente formazione del buco nell’ozono.
Da ciò si capisce come le sostanze derivanti dall’azione inquinante umana (CFC), diventano efficace nell’azione di depauperamento di ozono stratosferico, solo in presenza di particolari condizioni atmosferiche. In particolar modo i CFC entrano in azione solo in presenza di un VPS estremamente isolato e freddo. Quest’ultima circostanza, come abbiamo visto, è favorita nel lungo periodo da una continua ed intensa attività solare. Entrambi i fenomeni “vanno dunque a braccetto”, nel senso che, anche se completamente indipendenti dal punto di vista delle cause, risultano complementari nel produrre ed accentuare lo stesso effetto. Inoltre, alla riduzione di ozono apportata dalle sostanze inquinanti va aggiunta quella “naturale” associata all’indebolimento della stessa BDC. Infatti ricordiamo che una delle principali funzioni della BDC è quella di trasportare, durante l’inverno, l’ozono stratosferico dalle zone in qui viene prodotto (equatore) ai poli. Infine, la riduzione di ozono stratosferico contribuisce ulteriormente al raffreddamento della stratosfera polare. Infatti, all’arrivo della radiazione solare sul polo nell’ultima parte dell’inverno, l’ozono presente assorbe la maggior parte della radiazione solare ultravioletta e la restituisce sotto forma di calore. Ciò favorisce intensi fenomeni di stratwarming e porta ad un Final Warming stratosferico “anticipato”(l’aggettivo “anticipato” qualifica l’evento in relazione all’andamento del fenomeno nell’epoca moderna, pertanto sarebbe stato più giusto utilizzare l’accezione “normale”) . La riduzione dell’ozono stratosferico polare tende dunque ad inibire il regolare riscaldamento della stratosfera a fine inverno ed a ritardare di molto il Final Warming. Quest’ultimo fattore, come è stato ampiamente dimostrato, comporta poi delle ripercussioni negative (in ambito meteorologico) nella seguente primavera e prima parte d’estate alle medie latitudini.
Pertanto siamo al cospetto di un fenomeno estremamente efficace, in quanto la riduzione di ozono stratosferico è causato dal raffreddamento della stratosfera polare ma a sua volta contribuisce a raffreddare la stessa.
Il meccanismo sin qui spiegato dimostra, infine, perché la problematica del “buco dell’ozono” riguarda più da vicino il polo sud. Infatti, la particolare configurazione geografica ed orografica che contraddistingue l’emisfero meridionale, rende molto difficile la formazione di onde di Rosbby particolarmente lunghe ed ampie (e dunque energetiche) in grado di penetrare nella stratosfera. Ciò rende quasi impossibile il verificarsi di fenomeni di stratwarming, rendendo praticamente inefficiente l’azione della BDC. Infatti, anche se la BDC portasse ad un innalzamento della temperatura al di sopra dell’equilibrio radiativo del VPS antartico (rallentandolo), l’impossibilità del verificarsi anche dei più blandi fenomeni di stratwarming, porterebbe la stratosfera stessa a raggiungere nuovamente l’equilibrio radiativo locale (-80 °C circa). Ciò porta ogni anno alla formazione di un VPS estremamente compatto e freddo sull’antartico, facilitando di molto il lavoro di distruzione di ozono ad opera dei CFC.
Per riassumere, questo complesso fenomeno, associato all’elevata attività solare e velocizzato dalle emissioni di sostanze inquinanti di origine antropica, ha portato nel secolo scorso (soprattutto seconda metà) ad un progressivo raffreddamento della stratosfera polare artica. Di seguito vi riporto un bellissimo grafico in cui è rappresentato tale fenomeno, con riferimento al ventennio che intercorre tra gli anni 80’ ed il 2000.

Dal grafico si evince come il processo sia stato regolare e senza alcuna interruzione. Inoltre notate come la linea blu (quantità di ozono nella stratosfera polare antartica) segua da molto vicino la linea rossa (temperature nel VPS), anche nelle oscillazioni inerenti al brevissimo termine. Questo dimostra come i due fenomeni sono strettamente correlati da un legame di causa effetto “multiplo” (nel senso che il singolo fenomeno è sia causa dell’altro, sia conseguenza).
Tale situazione ha portato nel corso dei vari decenni ad avere un VPS sempre più compatto ed isolato, con conseguente contrazione e compattazione dell’intera struttura del VP (anche a quote troposferiche). A tal proposito vi riporto di seguito un grafico in cui è tracciato l’andamento medio dell’indice AO invernale nel corso degli ultimi 60 anni (penso che tutti voi sappiate che l’indice AO misura il grado di compattezza del Vortice Polare e che valori bassi indicano un VP vulnerabile e dunque in grado di scendere a latitudini più basse).

In questo caso la linea blu rappresenta l’oscillazione annua del valore medio dell’AO invernale, mentre le linee rosse rappresentano le medie nel singolo decennio dei valori dell’AO stesso. Come si può facilmente osservare, il processo di raffreddamento/isolamento del VPS è coinciso con un graduale aumento della compattezza/contrazione del VP (aumento AO). Il record massimo dell’AO è stato raggiunto negli anni 90, con un valore medio pari a 0.41. Proprio negli anni 90 è stato toccato il record di bassa temperatura nella stratosfera polare artica.
Infatti nell’ultimo decennio (soprattutto ultimi 5 anni) il fenomeno di raffreddamento della stratosfera polare si è assestato, mostrando anzi un andamento di controtendenza. Alla luce di quanto ci siamo sin qui detti, mi sembra retorico sottolineare che la causa di tale circostanza si debba ricercare nel brusco calo dell’attività solare (Minimo di Eddy). Anche l’andamento dell’indice AO ha mostrato una controtendenza ed il valore medio del decennio si è assestato intorno a -0.34.

Esaminato nel dettaglio l’epoca moderna, andiamo ancora indietro nel tempo e cerchiamo di ricostruire assieme cosa accadeva durante la Piccola Era Glaciale (PEG).
Iniziamo ovviamente con il dire che il periodo antecedente al 1900 (dalla fine dell’epoca Medievale in poi) fù contraddistinto da uno stato generale di bassa attività solare. Ovviamente la stessa attività solare, in tutti quei secoli, ha avuto un andamento altalenante, ma mediamente ed a livello di trend si può asserire con certezza che essa sia stata molto bassa per tutti quei secoli. Al contrario, nel periodo ancora precedente (Medioevo) l’attività solare si adagiava su livelli molto elevati. Non sto qui ad elencare le conseguenze che si ebbero a livello climatico, in particolare nell’emisfero boreale alle medie latitudini, perché ritengo le conosciate tutti. Quello che mi interessa invece è cercare di individuare quel meccanismo che si è innescato con il mutamento dell’attività della nostra stella e che si è poi evoluto nel tempo, arrivando a toccare il culmine tra la seconda metà del 1700 e la prima metà del 1800 e che ha portato molte zone dell’emisfero settentrionale (Europa in primis) a vivere condizioni di freddo anomalo.
Abbiamo sin qui visto le modalità con cui l’attività solare riesce a modulare l’intensità dei vortici atmosferici polari, con particolare riferimento al Vortice Polare Stratosferico (e dunque all’intero Vortice Polare).
Nel caso specifico, nel corso dei secoli medievali (IX-XIII sec.), l’incessante alta attività solare è stata certamente causa di un processo di raffreddamento medio del VPS con conseguente rafforzamento/restringimento dell’intero VP. In un simile contesto gli scambi meridiani tra polo e medie latitudini erano fortemente inibiti e l’Europa occidentale si trovava spesso protetta, anche in pieno inverno, dall’anticiclone oceanico, la cui distensione lungo i paralleli era certamente favorita da una forte ed ininterrotta circolazione westerly. Se una simile situazione (figlia dell’alta attività solare) si protrae nel corso dei secoli, il risultato è certamente quello di avere un estremizzazione dell’andamento climatico pocanzi descritto ed una conseguente riduzione delle precipitazioni alle medie latitudini. La riduzione delle precipitazioni nevose, connessa al progressivo rafforzamento/contrazione del VP e dunque alla riduzione delle oscillazioni della corrente a getto polare, ha poi favorito un lento ma progressivo ritiro della copertura nevosa primaverile e dei ghiacci dalle medio-alte latitudini. Quest’ultimo fattore è poi connesso alla riduzione dell’effetto albedo, con conseguente aumento delle temperature in tutto l’emisfero nord (principalmente medie latitudini).

Alla fine di tale periodo, il repentino stravolgimento del regime dell’attività solare, ha cominciato ad apportare netti cambiamenti nella consistenza dei Vortici Polari, portando così ad un radicale mutamento dell’intera circolazione atmosferica alle medie latitudini. Il progressivo aumento delle temperature stratosferiche polari è coinciso con un incremento della debolezza dell’intero Vortice Polare. È chiaro che in caso di bassa attività solare duratura per svariati secoli, le conseguenze risultano tangibili su buona parte dell’emisfero boreale e possono divenire anche pesanti. Un simile processo culmina infatti con il decentramento totale del VP ed un espansione dei lobi gelidi ad esso connesso anche a basse latitudini. Nel caso specifico (PEG), l’espansione dello vortice polare ha causato nel tempo un incremento delle precipitazioni (in particolare nevose) alle medie latitudini, aumentando così la copertura nevosa dell’intero emisfero nord. L’incremento dell’effetto albedo derivante da simili circostanze ha prodotto poi un apprezzabile calo termico alle medie latitudini. La straordinaria debolezza del VP,già in fase autunnale, favoriva inoltre la precoce discesa di colate artiche portando alla prematura (rispetto ad oggi) formazione di un potente anticiclone termico russo siberiano. L’estensione della spessa copertura nevosa anche in zone più occidentali (Russia più occidentale) , ancora una volta dovuta ad un VP debole ed espanso, comportava un espansione (formazione anche in zone più occidentali) dello stesso hp termico siberiano. Durante l’inverno, l’incredibile debolezza/lentezza del VPS (in generale VP) favoriva la formazione di onde ampie e lunghe con conseguente blocco della circolazione occidentale ed attivazione di moti retrogradi da est sull’Europa occidentale. Le altissime (rispetto a quelle attuali) temperature nel VPS e la suddetta facilità di formazione di onde planetarie lunghe con ed ampie favoriva inoltre la formazione di numerosissimi e violenti stratwarming, con conseguente formazione di anticicloni caldi in sede artica in grado di attivare una circolazione oraria e sospingere sul comparto europeo correnti gelide connesse o a lobi freddi di diretta estrazione polare.. Inoltre, come sopra detto, l’eccezionale copertura che si palesava sul comparto russo già in autunno (a causa di un VP estremamente vulnerabile e maggiormente proteso a medie latitudini già nelle fasi iniziali dell’inverno) favoriva una formazione più occidentale (nel senso che era più esteso) dell’hp termico russo-siberiano. Pertanto le suddette circolazioni retrograde invernali attivate in seguito alla frequente formazione di onde particolarmente lunga (in grado di bloccare in maniera stazionaria la circolazione occidentale oceanica), potevano portare lo stesso hp russo-siberiano a lambire l’Europa (e non una sua propaggine dinamica).

È chiaro che alla base di tutto vi fosse un netto cambiamento di circolazione indotto nel Vortice Polare Atmosferico dalla lunga fase di bassa attività solare.
Abbiamo visto, nelle precedenti parti, come la bassa attività solare riesca a modulare (disturbare) il VPS con “l’ausilio” di due fenomeni: QBO ed ENSO. Cerchiamo di comprendere il loro andamento durante la PEG e verificare se questo fosse favorevole all’attivazione e all’accentuazione delle dinamiche sopra descritte.
Iniziamo con l’osservare che, in un contesto di attività solare “costantemente” bassa per svariati secoli, anche il classico andamento della QBO (quello che conosciamo oggi con fase di 28) sarebbe in grado di favorire importanti cambiamenti nella circolazione atmosferica invernale boreale. Di fatti in media un anno ogni due si sarebbero create condizioni ottimale per avere un VP particolarmente disturbato e propenso a discendere verso le medie latitudini. Praticamente durante la PEG un anno ogni due (con frequenza quindi dello 0,5) si venivano ad instaurare condizioni favorevolissime ad eventi eclatanti di gelo sull’ Europa, le “stesse” condizioni che nell’epoca moderna si verificano di mediamente una volta ogni vent’ anni.
Sempre riguardo alla QBO, recenti sudi stanno cercando di individuare una correlazione di causa-effetto tra attività solare ed andamento dei venti stratosferici equatoriali (QBO). Tra questi ricordiamo quelli condotti da Soukharev dell’ “Institut für Meteorologie, Freie Universitat Berlin” e Hood del “Lunar and Planetary Laboratory, The University of Arizona” e quelli pubblicati da Salby e Callaghan dell’ “University of Colorado”. In entrambi i casi i ricercatori hanno tentato di trovare una correlazione tra andamento della QBO e minimo-massimo solare nell’ambito però del classico ciclo solare undecennale. Il risultato è stato quello di osservare come la lunghezza del ciclo della QBO tenda ad allungarsi durante il minimo solare e ad accorciarsi durante il massimo, specificando tuttavia che i pochi dati a disposizione (campione di dati troppo breve) non consentono di trarre conclusioni certe e definitive..
Tuttavia, come anzi detto, tali ricerche sono state condotte con lo scopo di ricercare una correlazione tra QBO ed attività solare nell’ambito del consono ciclo undecennale. In altre parole si è cercato di capire come si comporta la QBO durante la fase di minimo del ciclo undecennale e come varia il suo andamento in concomitanza del massimo. Questo per dire che i ricercatori non si sono preoccupati di ricercare l’esistenza di un eventuale legame tra attività solare e QBO nel lungo termine, ovvero a livello di trend. Io nel mio piccolo ho tentato di farlo. In poche parole ho cercato di rispondere alla seguente domanda: esiste un legame di causa effetto tra andamento medio di attività solare ed andamento della QBO nel lungo termine?
Ebbene sulla base dei dati a disposizione inerenti alla QBO a 30 hpa ho potuto constatare come, 60 anni caratterizzati mediamente da un elevata attività solare (dal 1950 al 2007), hanno comportato un cambiamento sull’andamento medio della QBO. In particolare sono riuscito a costruire un grafico in cui si evince un trend della QBO davvero interessante: mediamente la durata complessiva della QBO negativa (linea gialla) si è andata lentamente ma progressivamente riducendo, mentre, la durata complessiva media della QBO positiva (linea viola) ha subito un processo di lenta e graduale crescita.

Ciò lascia presupporre che, nel lunghissimo termine, possa esistere un legame di causa effetto tra attività solare ed andamento medio delle fasi della QBO. Tale legame può riassumersi nel seguente modo:

 lunghi periodi interessati mediamente da un intensa attività solare comportano una diminuzione della durata media della fase orientale della QBO (QBO-) ed un aumento dell’opposta fase occidentale (QBO+);

 lunghi periodi caratterizzati da un’attività solare mediamente debole, portano ad un aumento della durata media della QBO negativa ed una diminuzione dell’opposta fase positiva.

Un legame di questo tipo ha un estrema importanza. Infatti l’aumento della durata media della QBO negativa comporta un aumento del tempo in cui l’attività solare riesce ad essere estremamente efficace nel modulare il clima (soprattutto nell’emisfero boreale). In altre parole, è possibile che al culmine della PEG, la durata complessiva delle fasi negative della QBO fosse discretamente superiore a quella delle opposte fasi positive, determinando un ulteriore aumento degli anni favorevoli al verificarsi di fenomeni di freddo anomalo alle medie latitudini boreali, Europa in particolare. Vale a dire che la frequenza dello 0,5, associata al famoso “un anno favorevole ogni due”, poteva essere in realtà superata (ad esempio due anni buoni ogni tre). Le ripercussioni climatiche di tale presunto legame, sarebbero per le medie latitudini a dir poco clamorose.
Come fatto per la QBO, nelle prossime Parti cercheremo di ricostruire l’andamento dell’altro fenomeno che in un contesto di bassa attività solare ha grande capacità di modulare le caratteristiche del VP: il ciclo ENSO. Verranno inoltre illustrati degli studi in grado di mettere in relazione l’andamento della QBO con lo stesso ciclo ENSO. Infine, come già anticipato in fase di presentazione dell’articolo, saranno fornite una serie di prove di carattere storico e scientifico a dimostrazione di quanto esposto.

Riccardo

UN NUOVO MODELLO CLIMATICO ALLA BASE DELLA PEG: PARTE V

Un saluto a voi, popolo di NIA.
Come già anticipato al termine della precedente Parte IV, nella presente Parte ci occuperemo dello studio di un altro fenomeno chiave nelle dinamiche degli inverni europei: il ciclo ENSO. Ovviamente una trattazione completa sul ciclo ENSO e sulle conseguenze che esso ha sul clima terrestre mi porterebbe a dilungarmi in maniera eccessiva. Pertanto, ricollegandoci al discorso sin qui svolto e tenendo in mente l’obbiettivo primario di ricercare un nuovo modello climatico incentrato sulla variabile solare a lungo termine, svilupperemo la trattazione in maniera particolare. Nello specifico cercheremo di individuare i cambiamenti indotti nella stratosfera polare (e di conseguenza nella più sottostante troposfera) dal ciclo ENSO, in accordo con la con il ciclo solare e con il regime dei venti stratosferici equatoriali (QBO).
Onde evitare incomprensioni, preciso sin da subito che il senso ultimo del ragionamento emergerà solo leggendo le prossime Parti e dunque al termine dell’articolo. Raccomando inoltre a chi non l’avesse ancora fatto di leggere le precedenti Parti per avere una chiara visione dei concetti sin qui esposti e soprattutto per non perdere il filo del discorso (ricordo che l’articolo è una lunga dimostrazione). Per ora non posso che augurarvi una buona lettura.

Ciclo ENSO : El Nino Southern Oscillation è un oscillazione periodica riferita alle temperature delle acque del Pacifico nell’ambito della fascia equatoriale. Una corretta descrizione del fenomeno mi poterebbe a dilungarmi eccessivamente, dunque mi limiterò a descrivere solo alcuni degli aspetti più importanti che lo caratterizzano.
Come ben tutti sanno l’oscillazione ENSO è connessa a due fenomeni opposti: El Nino e la Nina. Il primo riguarda un anomalo riscaldamento delle acque dell’oceano Pacifico, che ricordiamo essere l’oceano di gran lunga più vasto del mondo. Il secondo invece corrisponde all’opposto raffreddamento delle acque dell’oceano stesso.
Tuttavia non tutti sanno che l’oscillazione ENSO è associata esclusivamente al regime di venti tropicali-equatoriali connessi alla circolazione di Walker e non al maggiore o minore riscaldamento del Pacifico indotto da agenti esterni. La circolazione di Walker in particolare, è una particolare circolazione connessa alla cella convettiva inerente il Pacifico che, a differenza della cella convettiva di Hadley (vedi Parte I), ha direttrice ovest-est e non nord-sud. All’interno di questa cella, l’aria sale nel ramo occidentale dove sono presenti acque calde (che comprendente l’Indonesia e le Filippine), si sposta in quota verso est e ridiscende sul ramo orientale dove le acque sono molto più fredde (zona prossima alle coste del Perù, Ecuador e Cile settentrionale). Sul ramo ascendente, dove le acque sono molto calde, si sviluppa un’intensa attività convettiva che favorisce lo sviluppo di intense precipitazioni sull’Indonesia (e zone limitrofe) e nord Australia. L’aria discendente sul pacifico orientale risulta invece estremamente secca. In questo caso il fenomeno di subsidenza porta alla formazione di un’alta pressione perenne. Ciò spiega perché le coste pacifiche del Perù, Ecuador e nord Cile nonché le isole Galàpagos sono soggette ad un clima estremamente siccitoso (in queste zone sono presenti estesi deserti costieri, come il deserto Sechura in Perù).

La circolazione si richiude grazie ai venti al suolo che spirano da est verso ovest, che nient’altro sono che gli alisei (trade winds). Proprio gli alisei, spirando sul livello del mare, raschiano la superficie del Pacifico provocando un accumulo delle acque superficiali sui settori più occidentali del pacifico ed innescando fenomeni di upwelling. La risalita d’acqua fredda dagli strati profondi verso quelli superficiali raffredda le acque del Pacifico (a partire dal pacifico orientale), mentre l’acqua “accumulata” sui bordi più occidentali del Pacifico (Indonesia) tende a riscaldarsi portando alla formazione di una estesa piscina di acqua calda (West Pacific Warm Pool). Al di sopra di questa piscina calda si genera un intensa attività convettiva, che come sopra detto favorisce lo sviluppo di un clima eccezionalmente umido nelle zone occidentali del Pacifico (Indonesia, Filippine, Micronesia, Nord-Australia ecc..). Al contrario, sulle fredde acque del Pacifico oientale il clima si presenta estremamente secco. In queste ultime zone inoltre, a causa della forte azione di raschiamento esercitata dagli alisei e dei conseguenti moti di upwelling, lo spessore del Termoclino si presenta estremamente ridotto (poche decine di metri). Sul versante opposto invece, a causa dell’ingente accumulo di acque calde, lo spessore del Termoclino raggiunge dimensioni considerevoli.

E’chiaro dunque che gli episodi di Nina sono associati ad un rafforzamento della circolazione di Walker. In questo caso infatti un intensa attività degli alisei favorisce un maggior raschiamento della superficie dell’oceano Pacifico, portando ad diminuzione delle SST su tutto il Pacifico. Al contempo si registra una riduzione dell’estensione della West Pacific Warm Pool (di qui in avanti WPWP) con conseguente soppressione semi-totale dell’attività convettiva equatoriale. In questi frangenti, oltre ad incrementare il dislivello barico-termico tra Pacifico orientale e Pacifico Occidentale (indice SOI), si registra un aumento del dislivello dell’altezza della superficie marina. Infatti, a causa dell’accumulo delle acque calde nell’area circoscritta dell’estremo Ovest Pacifico, in questa zona il livello del mare è decisamente più alto rispetto all’est-Pacifico (anche di 60 cm). Infine si registra un estremizzazione della differenza di Termoclino tra le due sponde del Pacifico.
Al contrario, il fenomeno opposto del Nino corrisponde ad una soppressione totale della circolazione di Walker. Anche in questo caso il fenomeno è comportato da un’alterazione della ventilazione al suolo. Infatti, quando ciclicamente si verifica un indebolimento degli alisei, il volume di acqua calda in precedenza accumulata sull’ovest Pacifico (WPWP) si riversa su tutto l’oceano. Ciò comporta un riscaldamento di tutto l’oceano con soppressione totale degli alisei (in quanto viene a mancare il gradiente barico orizzontale). Al contempo, l’attività convettiva equatoriale tende aumentare vertiginosamente (in quanto abbraccia quasi tutto il Pacifico) ed i moti ascensionali che causano le precipitazioni interessano il Pacifico in quasi tutto il suo sviluppo. Al contempo, fenomeni di subsidenza (discesa di aria) interessano le zone di Indonesia ed Australia da una parte ed Amazzonia dall’altra. In queste aree, la formazione di anomali anticicloni, comporta condizioni di siccità, mentre le aree notoriamente aride del Pacifico orientale sono interessate da abbondanti precipitazioni (Equador, Perù, Nord Cile, Isole Galapacos ecc..). E’ per questo motivo che il fenomeno del Nino è accompagnato da bassissimi valori dell’indice SOI.

Venendo a ciò che è di nostro interesse, il ciclo ENSO ha una capacità notevole di influenzare le caratteristiche della stratosfera polare invernale (in accordo con il segnale relativo all’attività solare). In particolar modo, durante le fasi di ENSO+ (Nino), aumenta notevolmente l’area del Pacifico interessata dalla convenzione profonda. Dunque, se si verifica un episodio di Nino in concomitanza con la fase negativa della QBO ed in un contesto di bassa attività solare si verifica un incremento straordinario delle quantità di vapore che, attraverso la tropopausa equatoriale, penetrano nella soprastante stratosfera. Infatti, in base a quanto visto la scorsa volta, nelle fasi di bassa attività solare la QBO negativa è associata ad un anomalo innalzamento della tropopausa equatoriale, producendo un aumento considerevole dell’attività convettive nelle regioni del Pacifico già di per sé occupate dalla convenzione profonda (non solo) ed un forte aumento della velocità di trasporto verso l’alto (stratosfera) dell’aria umida ricca di vapor acqueo. A sua volta El Nino, con la soppressione totale della circolazione di Walker, incrementa non di poco l’area interessata dalla convenzione profonda. In tali condizioni si osserverebbe un anomala (fuori dal comune) quantità di vapore attraversare la troposfera equatoriale e penetrare dunque in stratosfera. L’eccessivo aumento della forza della BDC che ne andrebbe scaturire avrebbe poi conseguenze “devastanti” sul VPS e dunque sull’intero VP.

Sono numerosissimi gli studi sul legame tra ciclo ENSO e Vortice Polare Stratosferico. Tra questi ricordiamo quelli condotti da Labitzke – Van Loon, Baldwin – O’Sullivan, Hamilton e Sassi. In tutti i casi è emerso come il VPS tenda ad essere più disturbato e pertanto più caldo e debole durante gli inverni interessati da condizioni di ENSO + (El Nino). Infatti durante le fasi di ENSO+ le onde planetarie sono in numero maggiore e risultano soprattutto più ampie e quindi in grado di sfondare in molte più occasioni nella stratosfera polare, variando la sua temperatura e la sua composizione chimica. Nello specifico è stato osservato come in presenza del Nino sia favorita una maggiore ampiezza delle onde planetarie più lunghe (wave 1), aumentando così l’efficacia dei forcing tropo-stratosferici (aumento stratwarming). A tal proposito i Prof. Masakazu Taguchi e Dennis Hartman del “Department of Atmospheric Sciences, University of Washington” nella loro ricerca “) “Increased Occurrence of Stratospheric Sudden Warmings during El Niño as Simulated by WACCM”, hanno stabilito che fenomeni di stratwarming nella stratosfera polare invernale hanno il doppio delle possibilità di verificarsi durante gli episodi di El Nino.
Come segnalato dagli autori stessi, in tutte le suddette ricerche, il problema è stato quello di scindere l’effetto prodotto dal Nino sulla stratosfera invernale dagli effetti associati ad altri fenomeni in grado di disturbare egualmente il VPS invernale (QBO, attività solare, eruzioni vulcaniche ecc..). Alcuni, come Charles D. Camp e Ka-Kit Tung del “Department of Applied Mathematics, University of Washington”, hanno tentato di quantificare l’effetto che el Nino ha sulla stratosfera polare. Questi infatti, analizzando i dati di temperatura stratosferica NCEP 1959-2005, hanno scoperto che l’anomalia termica indotta dal Nino è quantificata attorno ai 4 gradi Kelvin.
Quello di assegnare un peso alla capacità di ciascun fenomeno (QBO, ENSO, attività solare) di alterare il Vortice Polare resta comunque un intento molto arduo nonché, a mio avviso, di poco senso. Infatti in assenza di bassa attività, sia la QBO negativa che el Nino perdono notevolmente efficacia nel riuscire disturbare il Vortice Polare invernale. Inoltre come verrà meglio chiarito in seguito, i tre fenomeni sono da considerare strettamente legati ed interagenti tra loro nell’intento di decifrare periodi storici eccezionali dal punto di vista climatico (quale fù la PEG). In qualche modo sono da ritenere “tre facce della stessa medaglia” (questo discorso verrà chiarito nei prossimi appuntamenti).
Volendo comunque stabilire una sorta di ordine gerarchico tra detti fenomeni, integrando l’inferenza statistica (adottata nell’ambito di queste ricerche) con la fisica del problema, si può certamente concludere che, nell’ambito dei periodi caratterizzati da bassa attività solare e per ciò che concerne le dinamiche prettamente invernali, la QBO negativa abbia una maggiore importanza rispetto al segno del ciclo ENSO. Infatti, salvo episodi eclatanti di Nina (in grado di limitare fortemente le aree del Pacifico favorevoli allo sviluppo dell’ attività convettiva), la QBO negativa negli anni di modesta attività solare è in grado da sola di “attivare” quei meccanismi che portano il Vortice Polare ad essere maggiormente disturbato/rallentato (innalzamento e raffreddamento troposfera equatoriale, aumento aria umida attraversante la troposfera equatoriale, rafforzamento BDC). In altre parole, se in condizioni ordinarie di ENSO -(neutrale/negativo), la QBO- insieme alla bassa attività solare è comunque in grado di apportare ingenti stravolgimenti alla circolazione invernale alle medie latitudini, non è vero il viceversa. Infatti, sempre in un contesto di bassa attività solare, in condizioni normali di ENSO+ (neutrale/positivo), la QBO+ può comunque implicare un eccessivo indebolimento della BDC con conseguente rafforzamento del VPS. Ribadisco tuttavia che si tratta di un discorso sensato solo nell’ottica di caratterizzare (prevedere) una singola stagione invernale poiché, nel contesto di lunghissimi periodi (secoli) di bassa attività solare, i due fenomeni (ENSO+ e QBO-) risultano strettamente correlati tra loro, sia nelle cause che nelle conseguenze. Personalmente mi piace definirli come “figli dello stesso meccanismo”.

È chiaro che, come già sopra detto, se si verifica un episodio di Nino in concomitanza con la fase negativa della QBO ed in un contesto di bassa attività solare, la fortissima (anomala) attività convettiva in sede Pacifica porterebbe ad un vigoroso incremento della velocità e della potenza della BDC ed il VPS sarebbe soggetto a continui e feroci riscaldamenti. La particolare e duratura debolezza del VPS coinvolgerebbe agevolmente l’intera struttura del VP e ciò porterebbe a registrare per l’intero inverno valori estremamente negativi dell’indice AO.
Al contrario, negli di bassa attività solare in cui si verificano condizioni di QBO+ ed ENSO–l’attività convettiva viene fortemente inibita, per due motivi:
1) In un contesto di bassa attività solare, la QBO + comporta un abbassamento nonché un riscaldamento della tropopausa equatoriale inibendo l’intensità e la velocità di trasporto del vapore acqueo dalla troposfera alla stratosfera equatoriale;
2) In presenza di intensa Nina diminuisce l’area Pacifica interessata dalla convenzione profonda (relegata in questo caso a zone circoscritte del Pacifico occidentale).
In una simile circostanza si verifica una drastica frenata della BDC con conseguente raffreddamento ed isolamento del VPS (vedi l’anno in corso). Negli inverni dominati da tale quadro tele-connettivo il VPS si presenta quindi eccezionalmente freddo, forte ed interessato da veloci venti zonali. Come visto in precedenza, salvo eventi eccezionali (affetti da bassissima probabilità), anche la troposfera alle medie latitudini risulterebbe completamente bloccata (tipico pattern da AO++). Non mi dilungo a spiegare le nocive conseguenze che tale configurazione ha sul clima autunno-invernale europeo (anche perché le abbiamo vissute da poco e le stiamo sperimentando tutt’ora).
Questa particolare situazione è stata anche oggetto di studio in una ricerca condotta dai professori Charles D. Camp e Ka-Kit Tung del “Department of Applied Mathematics, University of Washington”. Questi infatti, tra le altre cose, attraverso ricerche statistiche hanno concluso che negli anni di minimo solare, QBO positiva ed ENSO- il Vorice Polare Stratosferico riceve il “minor disturbo possibile” e le probabilità che si verifichino fenomeni di Stratwarming tendono a zero.
In questi frangenti inoltre, a causa del blocco quasi totale della BDC e dell’assenza di Stratwarming, si verificano bassissimi afflussi di ozono nella stratosfera polare. Inoltre, per via delle bassissime temperature che si registrano in essa, aumenta notevolmente la capacità delle sostanze inquinanti antropogeniche di distruggere il poco ozono presente. Ciò porta al verificarsi di fenomeni improvvisi di “buco dell’ozono” anche sul polo nord, portando i fedelissimi dell’AGW a gridare alla catastrofe (questo concetto verrà meglio approfondito nella prossima Parte VI).
Poichè negli ultimi due inverni si sono verificate le situazioni opposte sin qui descritte, ho la possibilità di farvi comprendere a livello visivo la teoria che vi ho sin quì esposta. Infatti sono riuscito a reperire una video-sequenza che mostra il quantitativo di ozono stratosferico presente sul polo nord durante gli inverni 2010 e 2011 (esclusi i mesi di dicembre). A tal proposito ricordo che l’inverno 2010 è stato contraddistinto da QBO- ed ENSO+, mentre nell’ultimo inverno (2011) si sono avuti QBO+ ed ENSO-. In entrambi i casi l’attività solare si è mantenuta su valori molto bassi.

Avrete sicuramente notato la differenza lampante tra i due anni. In particolare, nell’ultimo inverno, lo sfavorevolissimo quadro tele connettivo, ha portato ad eccezionale isolamento del VPS che per diversi mesi è risultato inscalfito da qualsiasi tentativo di forcing troposferico (espansione delle Onde di Rossby). Ciò ha portato alla formazione di un anomalo buco dell’Ozono di cui si parla ancora in questi giorni. Sempre in riferimento all’ultimo inverno, avrete notato come il quantitativo di ozono sul polo era maggiore ad inizio gennaio che a febbraio-marzo. Questo è un fatto straordinario se si pensa che, causa i frequenti stratwarming che di norma con l’arrivo della radiazione solare interessano l’ultima parte dell’inverno, i quantitativi maggiori di ozono si hanno sempre alla fine della stagione fredda. Questa cosa può essere spiegata semplicemente considerando che la QBO va letta con qualche mese di ritardo (circa 4 mesi). Pertanto, poichè nel 2010 la QBO a 50 hpa è passata in campo positivo solo a metà settembre, per tutto dicembre 2010 e metà gennaio 2011 si è beneficiato del Pattern QBO- /bassa attività solare, che come visto è in grado di rendere efficace la BDC con tutte le conseguenze del caso (VPS/VP deboli e buono contenuto di ozono nella stratosfera polare). Non è un caso che per tutto dicembre 2010, fino a metà gennaio 2011gli indici AO e NAO si sono tenuti su livelli bassissimi. Nella fase successiva dell’inverno invece, la QBO+, favorita dall’azione della Nina, ha iniziato a dare i suoi effetti negativi portando l’intera struttura del VP ad essere estremamente compatta (AO ++).
Nell’inverno 2009-2010 invece, la concomitanza tra QBO- ed ENSO+ ha dato vita ad una situazione a dir poco eccezionale nell’ambito del Vortice Polare. La stratosfera polare ha ricevuto per tutti i mesi invernali grossi apporti di ozono e l’intera struttura del VP è stata continuamente sfaldata (in questo inverno si sono registrati i valori negativi record dell’indice AO).

La foto dal satellite immortala lo scenario “apocalittico”che vede il Regno Unito completamente sommersodal ghiaccio e dalla neve durante l’inverno 2009-2010.

Restando in tema, voglio infine presentarvi la ricerca forse più significativa in questo campo. Intitolata “Effect of QBO and ENSO on the Solar Cycle Modulation of Winter North Atlantic Oscillation” e pubblicata nel 2007 dal Prof. Yuhji Kuroda del “Meteorological Research Institute di Tsukuba”, detta ricerca analizza in comportamento dell’indice NAO in relazione alla bassa attività solare. Nello specifico Kuroda sostiene che, con QBO Occidentale e La Nina, la NAO Index, divenendo un pattern locale, ha meno influenza sulle dinamiche Emisferiche a larga scala e non ha ripercussioni forti sulla Stratosfera.
Al contrario, in anni caratterizzati da QBO Orientale e El Nino, il NAO Index ha ripercussioni in modo marcato sull’intero Emisfero Nord nonché sull’intera stratosfera polare.
Se si pensa che l’indice NAO quando assume valori negativi in inverno è segno dell’anomalo stazionamento di un anticiclone caldo nei pressi del Vortice Polare (Islanda), alla luce di quanto sin qui detto si comprendono le ragioni del Prof. Kuroda. Infatti in presenza di minimo solare, QBO- ed ENSO+ il VPS si presenta estremamente rallentato ed in queste condizioni l’onda anticiclonica associata al Pattern NAO- ha molte più probabilità di approfondirsi e penetrare nella stratosfera polare (onda stazionaria) gettando le basi per la formazione di eventi importanti aventi ripercussioni marcate su tutto l’emisfero nord. Al contrario, negli anni con minimo solare,QBO+ ed ENSO- , l’onda difficilmente potrà approfondirsi ed i fenomeni ad essa associati risulteranno limitati sia spazialmente che temporalmente.
Come detto la ricerca è stata pubblicata nel 2007 e pertanto il Professor Kuroda ha dovuto attendere appena un paio d’anni per verificare a pieno la bontà dei suoi studi.
Finisce qui la Parte V. Dalla prossima Parte cercheremo di capire quali configurazioni tele-connettive dominavano nella PEG. In altre parole, alla luce di quanto imparato sino ad ora e servendoci di numerose ricerche scientifiche nonchè di svariati documenti storici, cercheremo di inquadrare il meccanismo responsabile del raffreddamento delle medie latitudini boreali (Europa in particolare) che, iniziato alla fine dell’epoca medioevale, arrivò al culmine nella prima metà del 1800.

Riccardo

È NATO PRIMA L’UOVO O LA GALLINA ?

Un saluto a voi, popolo di NIA.
Molti di voi quest’oggi aprendo la home del blog si saranno sicuramente chiesti chi degli articolisti NIA ama molto bere vino. E forse vi sarete ancor più stupiti nel costatare che l’alcolista è il ““meteorologo”” di fiducia.
Scherzi a parte, anche se è vero che adoro il vino, ho aperto l’articolo usando il paradosso dell’uovo e della gallina, perché oggi vorrei discutere con voi di un altro paradosso, sicuramente meno famoso, ma di certo più in tema con il nostro amato blog: sto parlando del paradosso delle SSTA atlantiche. Quante volte, leggendo articoli meteo, vi sarà capitato di leggere frasi del tipo :“le cose non cambieranno finchè quell’anomalia negativa stazionerà in pieno atlantico…”; o ancora: “le anomalie positive a nord favoriranno la formazione di anticicloni di blocco..”.
Per farla breve, in tutti i siti meteo si continuano a riempire pagine e pagine di articoli in cui vengono effettuate previsioni o tracciate linee di tendenza sulla base della sola analisi delle anomalie atlantiche, senza spiegare in alcun modo quali fenomeni siano alla base di dette anomalie. E la cosa più grave è che in alcuni casi si tende a spacciare la dislocazione di tali anomalie come causa unica delle dinamiche circolatorie che influenzano il vecchio continente.
Ebbene, è inutile che vi dica che si tratta di un approccio del tutto errato: nella quasi totalità dei casi, la disposizione delle SSTA è conseguenza diretta di specifici pattern atmosferici che caratterizzano la circolazione emisferica e dunque anche quella europea. Detta più semplicemente, tanto le anomalie atlantiche quanto le vicissitudini meteo europee (comprese ovviamente quelle di casa nostra) sono figlie della stessa causa: da qui nasce il paradosso delle SSTA. Facciamo un esempio per chiarire meglio la questione.
Torniamo indietro di qualche mese, e precisamente alla prima metà dell’estate 2012 (inizio giugno-20 luglio). Ricorderete tutti cosa accadde in quei mesi a livello meteo sull’Europa. Brevemente, il vecchio continente europeo si è trovato costantemente diviso in due, con l’Europa centro settentrionale (Regno unito in primis) sferzata di da correnti fresche e piovose e con le regioni più meridionali continuamente sotto il tiro dell’aria calda africana. Contemporaneamente l’Atlantico, nella sua porzione centro orientale, si presentava insolitamente freddo, a causa di un estesa anomalia negativa i cui minimi erano posizionati proprio al centro dell’oceano:

Ora vi chiedo con tutta onestà: quante volte di quei tempi avete sentito dire che la causa del continuo passaggio delle basse pressioni in pieno atlantico e della conseguente risalita africana sulle regioni centro-meridionali italiane, era da ricercare nella presenza di quell’anomalia negativa in pieno atlantico, in quanto le anomalie negative richiamano le basse pressioni ecc ecc…? Ebbene si tratta di una grandissima cavolata, in quanto le cose stanno all’esatto contrario: la presenza di quell’anomalia così pronunciata era la conseguenza diretta di un flusso perturbato insolitamente basso e forte, e non la causa. Insomma, sia la configurazione delle SSTA sia le condizioni a livello meteo-climatico sull’Europa erano entrambi conseguenza di un particolare pattern atmosferico, che ha insistito con decisione e per lunghissimo tempo (addirittura da aprile-maggio fino alla fine delle seconda decade di luglio): sto parlando del pattern NAO– associato ad un vortice polare molto debole.
Non è assolutamente questa la sede adatta per discutere dettagliatamente della NAO (Nord Atlantic Oscillation). Diciamo solo brevemente che, quando si hanno periodi molto lunghi governati dallo schema circolatorio NAO–, un figura di alta pressione tende a stazionare in modo anomalo sull’Islanda-Groenlandia meridionale. In queste condizioni il flusso zonale si vede costretto a transitare molto più in basso del normale e l’alta pressione delle azzorre, molto debole, viene ricacciata ancora più in basso. La posizione molto più meridionale di un ramo dello jet-stream determina la formazione di forti anomalie negative in pieno atlantico. Per rendere meglio l’idea, vi mostro un immagine molto carina che schematizza il pattern NAO–:

Ora giochiamo al gioco delle somiglianze con questa carta delle SSTA relativa a fine giugno 2012:

Come si vede, l’immagine schematica con quella reale delle SSTA sono praticamente coincidenti. A tal proposito, l’aumento dei forti venti occidentali connessi al deciso abbassamento del getto, determina l’approfondirsi delle anomalie negative in Atlantico. Nello specifico le anomalie negative tendono a svilupparsi lungo la linea che connette il golfo del Messico e l’Europa occidentale che è la linea immaginaria lungo cui scorrono i fronti perturbati connessi ad una forte circolazione westerly. Al contrario, a latitudini più elevate (Islanda-Groenlandia e Canada) prendono piede anomalie di segno +, a causa del duraturo aumento pressorio.
L’unica vera differenza, percepibile solo da un occhio particolarmente attento, è che nella prima carta (quella schematica) il canale freddo (e perturbato) è meno inclinato, nel senso che questo tende ad “attraccare” più a sud (Iberia) rispetto alla carta reale. In quest’ultima infatti il canale freddo approda in Europa a partire dal Regno Unito, mentre sulla penisola iberica prevalgono anomalie positive. Tale differenza è dovuta semplicemente al fatto che lo schema fa riferimento ad una situazione invernale, in cui il flusso zonale è di qualche grado più basso. Ecco come si presenta l’atlantico quando questo schema circolatorio si presenta in inverno:
• marzo 2010: siamo alla fine di un inverno caratterizzato per quasi tutta la sua durata da un pattern NAO–:


• dicembre 2010: siamo alla fine di un mese storico e di una fase caratterizzata da circa 40 giorni consecutivi di NAO pesantemente negativa:

In entrambi i casi fu addirittura scomodata la storiella del blocco della CDG (ma questo è un altro paradosso, forse anche più esilarante).
Tornando a parlare dell’estate appena conclusa, è chiaro che un simile pattern circolatorio anormalmente persistente, abbia causato, oltre che la distribuzione delle SSTA appena analizzata, una prima metà della stagione estiva molto fredda per diverse regioni dell’Europa occidentale. Le marcate anomalie positive presenti nel bacino del mediterraneo sono invece state causate da un anticiclone africano molto tenace in zona italica: anche in questo caso le SSTA sono una conseguenza e in nessun modo una causa. Le vere cause di detto trend climatico sono ben altre (purtroppo non è questa l’occasione giusta per analizzarle).

In conclusione, ribadisco quanto sin qui esposto: è assolutamente sbagliato pensare di poter tracciare una linea di tendenza dell’evoluzione meteo sulla base della sola disposizione delle SSTA atlantiche. Queste infatti, oltre a mutare con grande rapidità, sono causate dalle stesse dinamiche atmosferiche che finiscono per determinare gli scenari meteo anzidetti.
Con questo non voglio assolutamente dire che lo studio delle anomalie termiche atlantiche non ha valore. Anzi un attenta analisi della disposizione delle SSTA è molto utile per due principali ragioni:

1) anzi tutto perché, proprio per quanto detto sino ad ora, le anomalie atlantiche sono una vera e propria cartina da tornasole per individuare e dimostrare l’azione di uno schema circolatorio. In altre parole la disposizione delle SSTA ritrae in maniera limpida e chiara (almeno per chi le sa leggere) le dinamiche atmosferiche dominanti in azione. A tal proposito, in mancanza dei modelli e dei moderni strumenti di calcolo, l’analisi delle SSTA resta comunque lo strumento più valido e sicuro per individuare il pattern atmosferico dominante;

2) le anomalie possono indurre fenomeni di feedback positivo, i quali possono in qualche modo accentuare e/o prolungare l’assetto barico dominante (ad esempio un anomalia negativa in pieno atlantico può favorire lo stazionamento più duraturo di una bassa pressione in quella zona).

Purtroppo però sulla rete si continuerà a fare uso improprio di questo strumento da parte dei guru della meteo, i quali continueranno a giustificare e a prevedere la disposizione futura delle principali figure bariche sulla base della dislocazione attuale delle SSTA atlantiche. D’altronde, se dopo svariati millenni in molti ancora si stanno chiedendo se è nato prima l’uovo o la gallina, altrettanti millenni ci vorranno per riuscire a risolvere il più complicato enigma: nascono prima i movimenti atmosferici o le anomalie termiche atlantiche?

Riccardo

UN NUOVO MODELLO CLIMATICO ALLA BASE DELLA PEG: PARTE IV

Un saluto a voi, popolo di NIA.
Insieme agli amministratori del blog abbiamo deciso di ripubblicare le parti più salienti di questo mio lungo articolo, in attesa dell’uscita delle ultime inedite. Infatti, visto il tempo che è passato dall’ultima pubblicazione e vista la complessità dell’articolo, è stato deciso di comune accordo che sarebbe stato meglio riproporre almeno le parti più significative. Questo per consentirvi di ricordare i concetti appresi e di riprendere il filo logico. Le varie parti verranno pubblicate con una cadenza media di una a settimana.
Inoltre vi comunico già da ora che, ultimata la pubblicazione di tutte le parti di questo pezzo, ne uscirà a ruota uno nuovo in cui verranno ulteriormente approfonditi i meccanismi con cui la bassa attività solare influenza l’andamento delle stagioni invernali (e non solo). In quest’occasione verranno anche trattate alcune tematiche molto sentite (es: differenza tra Nino est-Nino ovest) e si prenderà spunto per fare delle riflessioni in merito al prossimo inverno.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura.

 

Nei precedenti appuntamenti abbiamo imparato che l’intensità del Vortice Polare (VP) sia un elemento fondamentale per le sorti degli inverni alle medio latitudini boreali, Europa in particolare. Infatti, in presenza di un Vortice Polare scarsamente disturbato e di un getto polare poco proteso alle oscillazioni meridiane (getto polare tirato), l’Europa si trova in genere ad essere interessata dalla distensione dell’hp oceanico lungo i paralleli. L’oscillazione del getto polare (sviluppo delle onde di Rossby) determina invece la discesa a latitudini più basse dell’aria fredda di origine polare ed il movimento delle perturbazioni extratropicali, la cui formazione è associata all’azione dello Jet Stream.
Soprattutto per ciò che concerne l’evoluzione meteorologica invernale in Europa, la presenza di un VP debole e lento è un elemento necessario per poter assistere ad eventi di freddo importanti .Questo perché in Europa, alla base sia delle discese fredde da nord sia delle retrogressioni gelide da est, vi è sempre la propagazione di onde di Rossby particolarmente lunghe ed ampie (a differenza della est coast statunitense dove, in virtù della particolare configurazione geografica-orografica, anche una modesta oscillazione del getto è in grado di apportare masse d’aria gelida di estrazione continentale).
A sua volta la propagazione di onde planetarie (onde di Rossby) particolarmente ampie (elevazioni degli hp a latitudini polari) avviene solo in presenza di un Vortice Polare molto disturbato. Nello specifico abbiamo visto che la formazione delle onde stazionarie e retrograde (le più lunghe, ampie e dunque le più energetiche) è strettamente correlata alla maggiore debolezza dei forti venti zonali che spirano nell’ambito del Vortice Polare Stratosferico (VPS). Con la propagazione dell’onda poi, la debolezza in seno al VPS si trasferisce anche alle quote troposferiche, coinvolgendo dunque il Vortice Polare Troposferico. Inoltre detto meccanismo (propagazione dell’onda planetaria), può portare in alcuni a frangenti allo sviluppo di fortissimi e repentini riscaldamenti all’interno dello stesso VPS (stratwarming), i quali possono essere la causa di eventi di freddo epocale alle medie latitudini boreali (in generale gli stratwarming aumentano notevolmente le probabilità di eventi di freddo intenso alle medio-basse latitudini).
Posto dunque che il Vortice Polare Stratosferico (VPS) ricopra un ruolo fondamentale per le sorti degli inverni boreali alle medio-basse latitudini (Europa in primims), nella precedente Parte III abbiamo visto come, l’intensità del VPS stesso, sia governata dall’attività solare per mezzo di una particolare circolazione stratosferica meridiana in grado di connettere direttamente le regioni equatoriali a quelle polari (Brewer Dobson Circulation ). Nello specifico abbiamo visto come, il segnale indotto dalla bassa attività solare, sia in grado di rafforzare ingentemente l’intensità di detta circolazione, portando così ad un incremento delle temperature e della concentrazione di ozono in seno al Vortice Polare Stratosferico (VPS). Tale situazione è in grado di allontanare il VPS dal proprio equilibrio radiativo e di renderlo più lento e disturbato e pertanto soggetto all’azione forzante troposferica associata all’espansione delle onde planetarie. Per mezzo di tale circolazione l’attività solare è in grado dunque di controllare l’intensità del Vortice Polare e di conseguenza l’evoluzione meteo invernale alle medio-basse latitudini boreali.


La presente figura schematizza l’azione della Brewer Dobson Circulation (BDC).

 

Tuttavia ci eravamo lasciati dicendo che, la bassa attività solare, diviene estremamente efficace nel modulare la BDC e quindi le caratteristiche del Vortice Polare, solo in presenza di alcune condizioni esterne. Infatti, la capacità del sole di modulare l’intensità del VP e dunque le caratteristiche del clima alle medio-basse latitudini boreali, dipende fortemente da due fenomeni: la Quasi Biennal Oscillation (QBO) ed il ciclo ENSO. Riprendiamo ora questo discorso.
Anche se i due fenomeni (QBO ed ENSO), come vedremo più avanti, sono in qualche legati tra loro, procederemo analizzandoli separatamente. In particolare, nella presente Parte IV, ci dedicheremo allo studio della QBO e delle modalità con cui essa riesca ad interagire con il segnale indotto dall’attività solare.

 

Quasi Biennal Oscillation: Si tratta di un indice che serve per qualificare e quantificare la circolazione zonale stratosferica che caratterizza la stratosfera equatoriale. Infatti al di sopra della fascia equatoriale, nello strato posto tra i 18 e i 30 km di altitudine, la circolazione zonale stratosferica ha una sua periodicità quasi biennele (28-29 mesi circa), con venti orientali (antizonali) per 13 mesi circa, seguiti poi da venti occidentali. Convenzionalmente la QBO negativa (preceduta dal segno meno) indica la circolazione esterly, mentre i valori positivi di QBO rappresentano la circolazione westerly. In entrambi casi il modulo della QBO (valore assoluto) è indice dell’intensità dei venti. Esistono diversi tipi di QBO, a seconda della fascia atmosferica in cui si registrano i venti. I due più importanti valori fanno riferimento alle altezze stratosferiche di 30 hpa (QBO a 30 hpa) e di 50 hpa (QBO a 50 hpa). I venti più intensi, fino a 40-50 m/s, si verificano a quote elevate (intorno ai 20 hpa). I venti, occidentali o orientali che siano, iniziano a manifestarsi in alto (10 hpa) per poi propagarsi gradualmente verso il basso (è per tale ragione che il cambio di segno si registra sempre prima nella QBO a 30 hpa). Dunque sulla stratosfera equatoriale si ha una circolazione variabile di tipo semi-periodico, a differenza di quanto avviene nella stratosfera polare dominata costantemente da una circolazione di tipo zonale (salvo rare eccezioni associate come si è visto agli episodi più violenti di stratwarming).

Venendo a ciò che è di nostro interesse, in seguito all’attività svolta da diversi centri di ricerca, è stata messa in luce la capacità che ha il regime dei venti stratosferici equatoriali (QBO), di alterare l’intensità dell’attività convettiva in sede equatoriale e dunque la velocità di trasporto verso l’alto (stratosfera) dell’aria umida ricca di vapor acqueo. Ad esempio, gli studi condotti dai professori Christopher C. Collimore del “Department of Atmospheric and Oceanic Sciences, University of Wisconsin”, David W. Martin dello “Space Science and Engineering Center, University of Wisconsin” e Duane E. Waliser dell’“Institute for Terrestrial and Planetary Atmospheres, State University of New York” hanno evidenziato come, durante l’inverno boreale, la fase orientale della QBO migliora l’attività convettiva, in particolar modo nelle regioni tipicamente occupate dalla convenzione profonda.
Diversi anni dopo, studi condotti in merito alle relazioni tra clima terrestre ed attività solare, hanno rilevato che la bassa attività solare è in grado di rafforzare enormemente la capacità della QBO orientale (QBO-) di aumentare l’attività convettiva nelle regioni già di per sé occupate dalla convenzione profonda e, soprattutto, di incrementare considerevolmente le quantità di aria umida e ricca di vapor acqueo e di altri traccianti che, attraversando la troposfera, penetrano nella bassa stratosfera equatoriale. Nello specifico è stato dimostrato come, in presenza di scarsa attività solare, i venti stratosferici equatoriali orientali (QBO negativa) siano associati ad un eccezionale (anomalo) innalzamento della tropopausa equatoriale. Tale fenomeno produce un forte aumento delle quantità di vapor acqueo che attraversano la tropopausa equatoriale, portando ad un deciso raffreddamento della stessa. Ciò causa uno straordinario rafforzamento della BDC che, come visto, comporta un indebolimento nonchè un rallentamento del VPS e dunque dell’intera struttura del VP. In questo modo dunque, il segnale trasmesso dall’attività solare si trasferisce dalla stratosfera equatoriale a quella polare. Tra questi studi ricordiamo quelli portati a termine da Baldwin e Dunkerton della “Northwest Research Associates”, da Yuhji Kuroda del “Meteorological Research Institute of Tsukuba (Giappone)”, dai Professori Salby e Callaghan dell’ “University of Colorado, USA” e dai celebri ricercatori Soukharev and Hood.


Lo schema sopra riportato riassume il fenomeno descritto: l’attività solare esaspera il meccanismo che in fase di QBO- negativa porta ad un innalzamento e ad un raffreddamento della tropopausa equatoriale (la linea grigia rappresenta la posizione della tropopausa). Ciò porta ad un eccezionale aumento dell’intensità e della velocità della BDC.

 

È chiaro dunque che la QBO ricopre un ruolo fondamentale nell’azione modulante svolta dall’attività solare nei confronti del Vortice Polare.
La spiegazione teorica appena fornita può essere inoltre integrata con un indagine puramente statistica: le reanalisi meteo degli inverni passati evidenziano come, il connubio bassa attività solare/QBO negativa, sia sempre in grado di produrre inverni “eccezionali” nell’ambito dell’emisfero nord, Europa in particolare. Saprete benissimo, cari lettori, che le parole “sempre” , “sicuro”, “certo” ecc.. sono rigorosamente bandite dal vocabolario della meteorologia, ma in questo caso possiamo fare un eccezione. Si può infatti asserire che, in presenza di bassa attività solare e QBO negativa, le probabilità che si verifichino eventi meteo considerevoli per via di un il Vortice Polare invernale eccezionalmente disturbato rasentano la certezza matematica (100%).
Per via dell’intensa attività solare che ha contraddistinto gli ultimi decenni, gli inverni che hanno potuto beneficiare dell’ “accoppiata magica” si sono potuti contare sulla punta delle dita. Tuttavia, ogni qual volta essa si sia verificata, gli inverni a scala europea (e non solo) sono risultati estremamente interessanti se non eccezionali. Tra questi ricordiamo gli inverni del 63, 85, 87, 96, 2006, 2009/2010 ed il dicembre 2010. Praticamente, al di fuori del solo inverno del 1975, tutti gli inverni della storia moderna caratterizzati dal connubio bassa attività solare/QBO negativa sono risultati eccezionalmente freddi alle medie latitudini, con particolare riferimento al continente europeo. Nell’ambito di una scienza “eccezionalmente aleatoria” qual’è la meteorologia, è questo un risultato a dir poco sbalorditivo.

 


La carta mostra l’anomala situazione a livello emisferico registrata nel giorno 16 dicembre 2010. A metà dicembre, ovvero in un periodo dell’anno in cui il VP si presenta solitamente compatto, esso risulta completamente frantumato in diversi lobi. Quest’ultimi possono discendere senza problemi alle medie latitudini, determinando situazioni di gelo estremo in diversi luoghi dell’emisfero nord. In particolare, il lobo presente a nord del Regno Unito nei giorni seguenti si troverà ad investirlo completamente, facendo registrare in queste zone uno degli eventi meteo più estremi di sempre.
Tale carta ritrae perfettamente le incredibili potenzialità dell’accoppiata bassa attività solare/QBO negativa.

 

Come sopradetto, a causa della forte intensità solare che ha contraddistinto con continuità tutta la seconda metà del XX sec., l’eccezionale accoppiata bassa attività solare/QBO- si è potuta verificare solo in un numero molto limitato di anni. In seguito (nelle ultime due Parti VI e VII) cercheremo di ricostruire le conseguenze climatiche a larga scala che un fortissimo aumento della frequenza di detta accoppiata può avere sull’intero emisfero boreale. Tale situazione si è infatti presentata durante gran parte della Piccola Era Glaciale (PEG).
Nella prossima Parte V ci occuperemo invece delle conseguenze che il ciclo ENSO, in accordo sempre con il segnale indotto dalla bassa attività solare, ha sulle dinamiche invernali dell’emisfero settentrionale.

 

Riccardo