Archivio mensile:Gennaio 2016

La neve in Italia – Seconda parte

Meteorologia della neve – La neve da raddolcimento

Nell’Europa centrale ed orientale, negli sterminati territori della Siberia, in gran parte del Canada e del Nord degli Stati Uniti, la maggior parte delle precipitazioni nevose, in inverno, sono determinate da fronti caldi recanti aria mite di origine marittima. Questo accade anche nei rilievi dell’Europa occidentale e nel Nord Italia. E’ la cosi detta neve da raddolcimento, “neige de redoux”, della letteratura francese.

Nelle Alpi, lo scenario meteorologico tipico durante il quale si hanno tali precipitazioni è il seguente: dopo alcuni giorni di tempo anticiclonico e freddo il cielo comincia a coprirsi da W con le nuvole tipiche dei fronti caldi: cirri, cirro-strati, alto-strati, nembo-strati, strati; la temperatura non cala bruscamente al tramonto come d’abitudine, ma resta mite per la quota e la stagione, le brezze si interrompono. Nella notte la neve comincia a cadere, e la nevicata può durare sino al mattino seguente ed oltre, se non si trasforma in pioggia. Poi il cielo si apre e si può talora godere di una splendida giornata di sole. Nevicate di raddolcimento si possono avere anche nelle pianure della Francia, in Belgio, in Olanda e dell’ Inghilterra se precedentemente si era creato un cuscinetto freddo in prossimità del suolo grazie ad un’invasione di aria polare da N-NW od artica da NE.

Fig.1 – Neve da raddolcimento in Francia per vento da W: 24-27 dicembre 1906 a sinistra, 24-26  dicembre 1965 a destra.Andamento indicativo della situazione barica (da  Ch. P. Péguy,  “La neige”.Presse Universitarie de France;  Paris 1968 )

Fig 2 – Neve da raddolcimento in Francia. Geopotenziale a 500 hPa ed isobare al suolo il 25-12-1965

La neve da raddolcimento nel Nord Italia

La neve da raddolcimento è la più frequente nella Valle Padana. Qui il cuscinettto freddo, generato dal raffreddamento, per irraggiamento notturno, dell’aria intrappolata tra Alpi ed Appennino, si crea molto facilmente in situazioni anticicloniche: Possiamo definire cuscino o cuscinetto freddo lo strato d’aria a contatto del suolo caratterizzato da inversione termica. Esso, a parità di altre condizioni , quali l’umidità (sfavorevole) e l’intensità della precipitazione (favorevole), è tanto più efficace ai fini della possibilità di avere neve al suolo quanto più riduce, nel grafico temperatura-quota, figure 4, 5, 6, l’area, compresa tra la curva e l’ asse delle coordinate Y passante per lo 0, al di sotto del livello dello zero termico, indicante una temperatura positiva. Ciò avviene in concomitanza di anticicloni termici piuttosto che dinamici perché quest’ultimi riscaldano molto l’aria in quota, innalzando conseguentemente il livello dello zero termico. La persistenza dei cuscinetti freddi a fronte dei flussi di aria tiepida meridionale aumenta da E a W e da N a S cioè allontanandosi dalla costa adriatica e dal versante meridionale delle Alpi (L’Appennino blocca pressoché totalmente l’influenza del Mar Ligure). Un secondo tipo di cuscinetto, di più rilevante spessore si può formare a seguito di un’invasione di aria fredda dai Balcani o dall’ Europa centrale.

L’aria mite è portata da depressioni centrate a W della Francia, sull’Inghilterra, sulla Francia centro-meridionale, sul Tirreno o sul Golfo Ligure (la celebre “Genoa Low”). In questi ultimi due casi le cadute di neve possono essere molto consistenti; ma nella pianura lombardo-veneta e nelle stesse Alpi orientali, talora anche sopra i 1000 m di quota, la precipitazione spesso si trasforma in pioggia a causa delle correnti sciroccali tiepide provenienti dall’Adriatico. Nel Piemonte, in particolare nel Cuneese, Alessandrino e nell’Oltre- Giogo ligure, viceversa la nevicata può continuare anche a bassissima quota sino al termine dell’evento perturbato.

figCiò è dovuto non solo alla già accennata maggiore persistenza del cuscino freddo che non viene rapidamente ridotto o smaltellato, ma anche, nel caso di depressioni da NW, a ragioni sinottiche (il ramo occidentale più freddo soprattutto in quota della depressione staziona più a lungo in queste regioni) e meteorologiche (le precipitazioni è normalmente intense per stau da E sulle Alpi occidentali e da NE sull’Appennino e questo porta un maggior raffreddamento dell’aria a temperatura positiva).

Quando il cuscinetto freddo è dovuto ad una precedente invasione da E o NE di aria artica può aversi neve anche in tutta la pianura padano-veneta ed in Liguria, come a metà gennaio 1985 (Fig.7 e 8) quando si registrarono accumuli di 50 cm nel Polesine e nella Romagna, 60 a Vicenza, 20 a Genova, più di 70 a Milano e 130 a Trento.

Se la depressione dall’alto Tirreno o dal Ligure si sposta nel medio-alto Adriatico, nel Golfo di Trieste si può generare la così detta Bora scura e le nevicate, anche se le temperature, prima dell’arrivo della perturbazione, non sono particolarmente basse, possono aversi ed abbondanti sul versante adriatico dell’Appennino centro-settentrionale, sulla pianura emiliana, veneta e romagnola. Con questo tipo di tempo, ad esempio, nell’inverno 2004 si sono avuti accumuli totali di 200 cm sui Colli Berici ed Euganei (a ca. 400 m di quota), alle spalle di Vicenza (complice l’effetto stau per venti da E) ancor di più nei Lessini. Viceversa, in tale situazione, nelle Dolomiti, sottovento, le precipitazioni sono normalmente modeste se non assenti.

Fig. 7 – Neve da raddolcimento in tutto il nord Italia (Liguria compresa) con Hp sulla Scandinavia e depressione sul Golfo di Genova. Isobare al suolo e geopotenziali a 500 hPa il 14 gennaio 1985

La neve da invasione fredda

Nella parte più occidentale d’Europa, Francia, Regno Unito, Spagna, le nevicate nel piano sono in gran parte dovute ad invasioni di aria polare marittima da N o da NW più raramente artica da E, NE, che avvengono soprattutto nel tardo inverno e nella prima parte della primavera. Tali invasioni possono essere pilotate tanto da depressioni scandinave che da alte pressioni situate sulle medesime zone od ancora più a nord. A seguito di tali irruzioni fredde il cambiamento delle condizioni termiche è brutale. Ad esempio nel contesto della situazione sinottica della Fig. 9 sul monte Ventoux, in Provenza, la temperatura è passata dai 3 C° il 17 aprile ai –10 C° il 20 dello stesso mese ed al Colle de la Porte, dopo 70 mm di pioggia, in 2 giorni caddero 50 cm di neve. In Bretagna le rare nevicate sono dovute a venti da Nord (neve di “Noroit”). Nel Galles, in Spagna ed in tutta l’Inghilterra. è quasi sempre il vento da NW che fa nevicare in pianura.

Fig. 9 – Pressione media al suolo nel periodo 17-20 aprile 1965(da Ch. P. Péguy, “La neige”. Presse Universitarie de France; Paris 1968 ). Neve da invasione d’aria fredda in Francia

La neve da invasione fredda in Italia

Le stesse perturbazioni da NW che portano la neve anche nel piano in Francia producono spesso depressioni sottovento nel Mar Ligure o nella Padania . Si possono così avere nevicate in pianura nell’Italia settentrionale (in particolare in Valle d’Aosta, Piemonte e nell’ovest Lombardia) talora anche nei rilievi della Toscana e del Lazio, se l’aria in arrivo è sufficientemente fredda. Ma le situazioni più frequenti per le nevicate da invasione fredda sono determinate da irruzioni di aria artica, continentale o marittima, convogliate da un anticiclone sulla Scandinavia, sulla Russia nord-occidentale o nei pressi della Groenlandia come si verificò il 5 gennaio 1985 che vide la neve a Roma ed a Venezia ed il giorno 8 dello stesso mese quando nevicò abbondantemente a Firenze e tutta la Toscana. A seguito di queste due irruzioni fredde si ebbero record secolari di temperatura negativa nell’Italia centro-settentrionale (-23 °C a Firenze Peretola, -29 °C in provincia di Bologna). La Fig. 10, riferita al 1° febbraio 1956, presenta la situazione sinottica più classica contraddistinta da una marcato anticiclone sulla Scandinavia e dallo stazionamento di una profonda depressione sul Meridione. In questo mese, con il gennaio 1985 ed il febbraio 1929, il più freddo del secolo, durante il quale tale conformazione fu molto persistente, nevicò in quasi tutta Italia con accumuli eccezionali nel Centro-Sud ed in Sicilia : 365 cm a Capracotta, 216 cm al Terminillo, 189 cm ad Avigliano,100 cm nelle Murgie,142 cm a Floresta. Ma anche più di 40 cm ad Imperia.

Fig. 10 – Neve da invasione fredda. Geoptenziale a 500 hPa ed isobare al suolo il 1° febbraio 1956

Fig. 12 – Isobare e precipitazioni nevose il 1° febbraio 1956 (dalla Pubblicazione n. 26 del Servizio Idrografico)

Ancora  copiose cadute di neve si possono avere nel Centro e nel Meridione a seguito di  irruzioni di aria polare marittima direttamente quadranti settentrionali, pilotate da depressioni sul Mare del Nord, sulla   Scandinavia o sull’Artico ad essa vicino. In tali casi però  il versante meridionale delle Alpi è di regola sotto vento con cielo sereno e può sperimentare il  foehn. Tali situazioni possono protrarsi per molti giorni se non per settimane come è successo nel gennaio 2005 (Fig. 13) con eccezionali accumuli  al Sud e siccità al Nord.

Fig. 13 – Bassa pressione sull’Artico scandinavo e sul Sud-Italia. Nevicate al Centro-Sud, bel tempo al Nord il 26 gennaio 2005

Nevicate sulla pianura padano – veneta ed in Romagna si possono avere invece, anche se con minore frequenza, per spostamenti retrogradi di depressioni in quota (gocce fredde) dall’Europa centrale o dai Balcani, pilotate da alte pressioni sulla Scandinavia o sulla Russia settentrionale, come si ebbe nel febbraio 1991 che portarono 20/25 cm di neve in Lombardia ,18 a Verona, 30 ad Udine, 60/70 nel Riminese (Figg. 14,15).

Fig. 14 – Neve per goccia fredda da E. Isobare al suolo e geopotenziale a 500 hPa, il 6-2-1991

Fig. 15 – Goccia fredda sull’Europa centrale e sul Nord Italia il 6-2-1991

Fonte : http://www.nimbus.it/liguria/rlm16/neve.htm

Un possibile legame fra la variabilità del Sole e l’attività vulcanica

Autori: (Paolo Madonia, Francesco Parello, Dalila Pitarresi, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sez. di Palermo, Palermo, Italia,e altri)

Riassunto

La variabilità solare ha la capacità di controllare il clima globale, che a sua volta agisce come un trigger per l’attività vulcanica. In questa ricerca si è studiato la connessione Sole-Terra analizzando la distribuzione temporale delle eruzioni dei vulcani situati nell’emisfero nord, nel mar dei Caraibi e ad est del Mar Mediterraneo, con particolare attenzione ai vulcani italiani più attivi. L’analisi comparata tra le macchie solari e i cicli vulcanici suggerisce che le eruzioni vulcaniche sono più frequenti durante i minimi dell’attività solare, con circa 3 eruzioni su 4 che si verificano nei minimi relativi del ciclo di undici anni del Sole. La relazione tra il Sole e la variabilità del sistema vulcanico non è così evidente nel lungo termine (scala temporale centenaria), poiché la complessa analisi del meccanismo che collega l’eruzioni vulcaniche a l’attività solare non può prescindere da discriminanti geodinamiche, che svolgono un ruolo fondamentale nel guidare la migrazione del magma verso la superficie terrestre.

Vulcani 1Abbiamo preso in considerazione le date di insorgenza delle eruzioni e agitazioni vulcaniche in sei diverse aree, che si trovano tra una latitudine compresa tra 10° N e 40° N: Mar dei Caraibi, isole di Capo Verde, le isole Azzorre, Isole Canarie, Italia e Grecia (i vulcani del distretto sud-italiano : Vesuvio, Etna, Stromboli e isola vulcano). Nella valutazione del possibile accoppiamento fra i cicli solari e l’attività vulcanica l’approccio che abbiamo seguito è stato il modello a blocchi: abbiamo semplicemente confrontato i tempi di eruzione e il numero di macchie solari, alla ricerca di un qualsiasi legame possibile tra questi due. Nel fare questo ci siamo concentrati con particolare attenzione ai cicli vulcanici, vale a dire, un gruppo di almeno tre eruzioni consecutivi il cui tempo di insorgenza era nettamente superiore rispetto ai periodi adiacenti, compreso i periodi dalla prolungata assenza di attività vulcanica. Per una migliore evidenza abbiamo tracciato le eruzioni usando una curva cumulativa. I dati provenienti da vulcani situati nella stessa zona sono state raggruppati e presentati qui sotto, fatta eccezione per l’italia, dove per un dettaglio maggiore, abbiamo considerato ogni vulcano separatamente. Nessuna relazione sistematica fra l’attività vulcanica e cicli solari centenari può essere accertata.

Vulcani 2Vulcani 3Il passo successivo è stato quello di suddividere le eruzioni per le diverse classi di SSN, cioè, associando ad ogni data di esordio di eruzione il corrispondente SSN osservato sul Sole I risultati sono tracciati sul grafico a barre, nella figura seguente. La distribuzione delle eruzioni in relazione al SSN rileva che il 73% delle eruzioni si è verificato quando il numero di macchie solari era inferiore a 60, condizione in base al quale il Sole ha speso il 76% del suo tempo. La forte somiglianza delle due distribuzioni di frequenza suggerisce l’assenza di rapporti causa-effetto tra i due parametri, poiché la probabilità che si verifichi una eruzione durante le fasi basse del SSN è più elevata solo perché il sole trascorre la maggior parte del suo tempo in questa condizione.

Vulcani 4Successivamente, ciascun ciclo solare è stato suddiviso in due metà, utilizzando la mediana ampiezza di picco come una divisione tra la parte bassa e alta del ciclo; le eruzioni sono state poi classificate in base alla loro posizione all’interno del picco. Come evidenziato nella figura sotto riportata, le più alte frequenze di eruzioni sono state osservate durante minimi relativi del ciclo solare, in tutte le aree considerate. Le isole delle Canarie hanno evidenziato le differenze più ampie, con il 90,9% delle eruzioni che si sono verificati durante i picchi di metà più bassi, rispetto al 9,1% durante quelli più alti, mentre lo Stromboli ha le differenze più basse, rispettivamente 55,2% e 44,8%. In totale, il 71,9% delle eruzioni ha avuto luogo durante i minimi del ciclo di 11 anni e solo il 28,1% durante i massimi.
Vulcani 5Conclusioni
I sistemi vulcanici sono controllati da meccanismi complessi e l’analisi di correlazioni tra l’eruzioni e l’attività solare non può prescindere da discriminanti geodinamiche, che svolgono un ruolo fondamentale nel guidare la migrazione del magma verso la superficie terrestre. Nonostante le complicazioni indotte da fattori geodinamici, l’analisi comparata tra i cicli delle eruzioni e il SSN suggerisce che le eruzioni vulcaniche sono più frequenti durante i minimi del ciclo solare di 11 anni. Circa 3 eruzioni su 4 si sono verificate nella zona studiata (minimo). Questo risultato può essere interpretato come un indizio preliminare che la variabilità del clima della Terra, guidato dal ciclo del Sole, potrebbe agire come un possibile fattore scatenante dell’attività vulcanica. Tuttavia, dal momento che questo effetto è una mera forzatura esterna della soglia eruttiva energetica di un vulcano, un collegamento diretto tra le eruzioni e dei cicli del Sole deve essere esclusa. L’attività di sole non può risvegliare una dormiente volcano, ma potrebbe scatenare l’insorgenza di un’eruzione in un vulcano che è in fase indipendentemente e in condizioni pre-eruttive.

Fonte : https://www.novapublishers.com/catalog/product_info.php?products_id=54254&osCsid=ca4f22cdac656b28ed24afa348882c8f

Una nuova ricerca rileva una relazione fra il ciclo solare di Gleissberg e le relative oscillazioni oceaniche, temperature terrestri e condizioni climatiche estreme

Un nuovo articolo pubblicato sulla rivista Advances in Space Research, rileva che :

“I recenti, estesi e profondi minimo solari, occorsi tra i secoli 19° e 20° (1810-1830 e 1900-1920) sono conosciuti come parte del centenario minimo di Gleissberg (CGC), con una variazione di 90-100 anni nell’ampiezza del ciclo delle macchie solari di 11 anni osservato sul Sole dalla Terra. Il clima sulla Terra risponde a questi ingressi di radiazione solare con un basso e prolungato trasferimento di calore nelle profondità dell’oceano, con un ritardo lungo dieci anni.”

Gli autori hanno trovato che :

“Il modello spaziale della risposta del clima [per il ciclo dell’attività solare di Gleissberg] … è dominato dallo schema della PNA.. I minimi di Gleissberg, in alcune situazioni, quando sono in combinazione con la forzatura vulcanica, sono associati a gravi ed estreme condizioni atmosferiche. Così il minimo di Gleissberg, occorso nel 19 ° secolo e che coesisteva con le eruzioni vulcaniche, ha portato a condizioni particolarmente fredde in Stati Uniti, Canada ed Europa occidentale.”

Il primo grafico, riportato nel documento, mostra una chiara evidenza dell’incremento sostenuto dalla totale radiazione solare (TSI) dal 1700 alla fine del 20° secolo, in coincidenza con la fine della piccola era glaciale ~ 1850 e il riscaldamento globale osservato durante il 20° secolo.

Coautore della carta è Joan Feynman (sorella del famoso fisico Richard Feynman).

La Totale radiazione solare nel grafico mostrato in alto, dal quale si rileva un significativo aumento dell'attività solare dal 1700. Il secondo grafico (analisi wavelet) mostra le periodicità (zone rosse) corrispondenti al ciclo di 90-100 anni di Gleissberg dell’attività solare. In basso, la traccia dei cicli di Gleissberg, dal 1700.

Nel secondo grafico (linea continua) è mostrata la TSI correlata con le temperature terrestri osservate (linea tratteggiata).

 

La carta : http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0273117715004901

Fonte : http://hockeyschtick.blogspot.it/2015/10/new-paper-finds-gleissberg-cycle-of.html

La Neve in Italia

Fig 1: Eccezionale nevicata a Bosco Chiesanuova (VR), in Lessinia.
Inverno 2004

Foto di: Vaona Corrado

La pubblicazione n. 26 del Servizio Idrografico Italiano, “La nevosità in Italia nel quarantennio 1921-1960” edita dall’Istituto Poligrafico dello Stato nel 1971, riporta i risultati di uno studio tra i più completi sull’argomento della neve in Italia. Sulla base principalmente di questo documento porteremo avanti le considerazioni che seguono.

Le precipitazioni nevose

L’altezza media cumulata durante l’anno delle precipitazioni nevose, nelle varie zone è determinata dall’andamento delle precipitazioni , dalla quota, dalla latitudine e dalla loro particolare posizione in rapporto all’orografia, alle correnti atmosferiche prevalenti, ecc. (Fig. 2). Da quanto emerge nello studio, i valori medi nella penisola variano da 789 cm della stazione del Lago della Rossa (Alpi occidentali, 2716 m s.l.m.) a meno di 1 cm delle coste dell’estremo Sud e delle isole. Attorno ai 4500 m , sul Monte Bianco, il Bénévent ha stimato un’altezza media della neve caduta pari 45 – 50 m all’anno.

Fig. 2: Nevosità media annua in Italia (1921-1960)

Nella Pianura Padana si passa da meno di 10 cm della fascia costiera adriatica a poco più di 20 cm attorno a Mantova, a 40 – 45 cm della zona compresa tra Pavia e Milano ed ancora a ca. 45 cm dei dintorni di Torino. Valori ragguardevoli si hanno nelle zone collinari del basso Piemonte (maggiori di 50 cm), ancor più nel cuneese e nell’oltre giogo genovese e savonese (> 100 cm a poche centinaia di metri di altezza); ancora, si superano i 40 cm ai piedi dell’Appennino emiliano (Bologna 42 cm).

Significativa, nella pianura veneta, l’isola di maggiore nevosità evidenziata dai colli Euganei e dai monti Berici nonostante la loro modestissima altezza. Valori ancora alti nelle parti settentrionali dei laghi sub alpini (tranne il Garda) dove si superano i 50 cm annui; in effetti la mitezza del clima locale non incide più di tanto sulla neve caduta piuttosto riduce la durata della sua permanenza al suolo. L’Appennino settentrionale gode di buona nevosità in particolare sul versante padano e nei pressi dello spartiacque (Sestola 219 cm, Abetone: 277 cm). Quello centrale presenta valori particolarmente elevati nella parte centrale in particolare nelle località esposte ai venti da Est e Nord-Est (effetto stau a fronte delle correnti fredde balcaniche, umidificatesi sopra l’Adriatico) cosicché si hanno ad es. più di 300 cm a Capracotta (1400 m s.l.m.) e si è registrato un massimo assoluto di 1049 cm ai soli 1050 m di altitudine di Roccacaramanico, nella stagione, ormai leggendaria,1928-1929.

Nell’Appennino meridionale, nonostante la latitudine ma complice (come in parte per l’Appennino centrale) l’alta piovosità invernale, si raggiungono facilmente i 100 cm in vari gruppi montuosi come il M. Santa Croce, il Volturno, il Cervati; i 200 cm nelle parti più alte della Sila e del Pollino. Significativa ancora l’alta nevosità del Gargano: 1 m di neve a meno di mille metri di altezza, e delle Murge settentrionali: più di mezzo metro a meno di 700 m di quota.

Il litorale adriatico riceve dai 5 ai 20 cm di neve nel tratto compreso tra Trieste e Bari (i valori maggiori in alcuni tratti tra Ravenna e Termoli, i più bassi nell’alto adriatico e sotto il Gargano) mentre in quello più a sud e in quello tirrenico e ligure non si superano di regola i 5 cm. Valori maggiori nel Valdarno inferiore e nelle basse valli dell’Ombrone e del Tevere. Buona la nevosità dell’entroterra marchigiano abruzzese e molisano dove già a quota collinare si registra più neve che a Milano. Nevicate trascurabili invece sulle coste della Sicilia e della Sardegna dove tuttavia si raccoglie più di un metro di neve sulle cime più elevate dei Nebrodi e delle Madonie e dei massicci del Limbara e del Gennargentu .

Frequenza della neve

Per quanto riguarda la frequenza della neve, Fig.3, espressa in giorni che hanno registrato almeno 1 cm di neve al suolo, nella pianura padano-veneta si hanno meno di 5 giorni di neve all’anno dalla costa sino a Milano, dai 5 ai 10 in Piemonte e nella fascia di pianura contigua all’Appennino (Parma 7, Imola 6).

Nell’Appennino settentrionale la frequenza è più elevata nelle parti esposte al versante padano ed oscilla tra 25 – 35 giorni l’anno per una quota di 1200-1400 m (Abetone: 31).

Nell’Appennino centrale ed in quello meridionale la frequenza a parità di quota è ancora abbastanza ragguardevole per la ragione, accennata sopra, che qui l’inverno, al contrario che nelle Alpi è la stagione più piovosa dell’anno. Così si hanno 30 gg. di neve al Terminillo, 60 gg. alla stazione di Campo Imperatore (2125 m) sul Gran Sasso, da confrontarsi con la stazione del Lago Cereser, 2500 m s.l.m., nelle Alpi occidentali, 47gg., e del Falzarego, m 1985, nelle Alpi orientali, 29, gg. Paragonabili ai valori piemontesi sono quelli che si riscontrano nelle conche intermontane dell’Aquila e del Fucino (Aquila: 8 gg, Avezzano: 6 gg. ). Per quanto riguarda i litorali, quello adriatico presenta da 1 a 5 giorni di neve all’anno sino al sud della Puglia , mentre quello ionico-tirrenico e quello delle isole non vede(in media) la neve nemmeno un giorno all’anno.

Fig 3: Giorni di caduta di neve in Italia (1921-1960)


Durata del manto nevoso

Un importante parametro climatico è la durata media annuale del manto nevoso al suolo (Fig.4). Nella pianura padano-veneta si registrano non più di 5- 6 giorni di neve al suolo presso il litorale, 9-10 attorno a Padova, 12 -15 in un’area che ha per asse la direttrice Vicenza – Ferrara – Bologna; poi ancora 10 giorni tra Verona e Milano. Andando ad occidente valori poi crescenti sino ai 25 gg. di Torino ed ai 35 della bassa piemontese. Ad Aosta la durata media è di 46 giorni. mentre nella valle, a 1200 m, si superano i 100 gg. Limitata è la durata della copertura nevosa nella valle dell’Adige che si estende tra Trento e Bolzano, 20-25 gg. appena, merito delle modeste precipitazioni nevose e del clima invernale molto soleggiato ed abbastanza mite (in particolare riguardo alle temperature massime).

Fig. 4: Durata media in giorni del manto nevoso in Italia (1921-1960)

Nell’Appennino settentrionale la maggior durata spetta la versante rivolto alla Pianura Padana : 100 giorni nell’area più elevata compresa tra il Monte Cimone e l’Abetone, da 50 a 100 giorni in quella tra il Monte Falterona ed il Fumaiolo. La copertura dura ancora più di 100 giorni nelle aree più sommitali dell’Appennino centrale . Nell’Appennino meridionale si superano i 50 giorni solo nelle cime del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte. Per quanto concerne le zone costiere, la durata è inferiore a 5 giorni nel litorale adriatico che si estende tra Trieste ed il delta del Po, è compresa tra 5 a 10 giorni più a sud, sino a Civitanova Marche dopo di che essa si riduce nuovamente sino a ca. 1 giorno, all’altezza di Bari. Ancora più a mezzogiorno e in tutto il litorale ionico, tirrenico, ligure ed in quello delle isole, la durata è inferiore a un giorno. Bassa è pure la permanenza della neve nelle zone pianeggianti del Lazio e della Toscana (da 2 a 4 giorni).

La neve nelle Alpi

Nelle Alpi tutti i valori sono ovviamente fortemente influenzati dalla quota. Relativamente al quarantennio 1921-1960 il Servizio Idrografico ha calcolato, sulla base dei dati provenienti di numerose stazioni nivometeorologiche i valori medi indicati nella seguente tabella, nella quale sono pure riportati i giorni di neve (> di 1 cm) ed i giorni della sua permanenza al suolo

Tabella 1

Tabella 1 – Media delle precipitazioni nevose, dei giorni di neve (> 1 cm) e dei giorni di permanenza della neve al suolo, nelle Alpi italiane, in funzione dell’altitudine (1921-1960)

Tali dati sono puramente orientativi risultando dalle medie di rilevamenti di singole stazioni. Questo potrebbe giustificare alcuni valori altrimenti inspiegabili come ad esempio per la quota 1200, 254 cm di caduta di neve per le Alpi centrali, solo 140 per quelle centrali; ed ancora per le prime, il passaggio da 147 a 254 cm per un dislivello di solo 200 m!. In realtà ogni versante, ogni valle, addirittura ogni porzione di valle, pur alla stessa quota, può presentare precipitazioni molto diverse. Nel complesso appare però indubitabile la maggiore nevosità del settore occidentale. Ciò può essere dovuto alla maggiore continentalità ed alle maggiori precipitazioni (per effetto stau) in occasione di depressioni che si formano nella parte settentrionale del bacino del mediterraneo (Gl, depressione della Val Padana). Per quanto concerne i giorni con caduta di neve i dati per i 3 comparti alpini denotano ancora una leggera prevalenza della parte occidentale, mentre per quanto attiene la durata del manto nevoso le differenze significativamente ancora vantaggiose per le Alpi occidentali alle quote meno elevate, tendono a scomparire più in alto.

Per i tre comparti alpini in relazione alla nevosità, ai giorni di neve ed alla permanenza della neve al suolo, il Servizio Idrografico ha suggerito alcune correlazioni matematiche con l’altitudine h espressa in hm, che qui riassumiamo (valide solo sopra i 500 – 600 m di altezza )

Per quanto concerne la caduta della neve, N (cm)

Alpi occidentali
N = 29,6h – 106,2

Alpi centrali
N = 32,9 h – 120,6

Alpi orientali
N = 23,1h – 81,7

In sintesi i può asserire che la nevosità aumenta di 20-30 cm ogni 100 m di dislivello altimetrico.

Per i giorni di caduta di neve, G

Alpi occidentali
G = 2,3 h – 4,5

Alpi centrali
G = 2,3 h – 5,3

Alpi orientali
G = 1,8 h – 3,1

I giorni di neve aumentano di ca. 2 ogni 100 m di dislivello altimetrico. Per i giorni di permanenza di neve al suolo, D

Alpi occidentali
D = 9 h – 1,5

Alpi centrali
N = 10,9 h – 17

Alpi orientali
N = 9,3 h – 11,3

La permanenza della neve al suolo aumenta di ca. 10 giorni ogni 100 m di dislivello altimetrico

Tabella 2Tab. 2 – Giorni di neve, altezza della neve caduta e durata del manto nevoso al suolo
in alcune località (1921 – 1960)

Fonte : http://www.nimbus.it/liguria/rlm15/neve.htm

Gli orsi polari sono tornati

Ricordate la propaganda di qualche mese fa…

Orso polare per le strade di Roma: campagna di Greenpeace per il clima
Dal Gianicolo al Colosseo: un orso bianco, in realtà un costume teatrale animato da due attivisti, è apparso in diversi luoghi della Capitale per sensibilizzare gli italiani sui rischi causati dai cambiamenti climatici. L’iniziativa arriva in concomitanza con le giornate decisive della conferenza Cop21 di Parigi.
….
Ecco adesso si scopre….

I ricercatori del Norwegian Polar Institute hanno un pò di buone notizie da darci… giusto in tempo per le vacanze di Natale: Gli Orsi polari sembrano essere ritornati sulle isole artiche Svalbard e altre zone del Mare di Barents sotto il controllo della Norvegia.

Nonostante i drammatici cambiamenti nelle condizioni di ghiaccio e temperature più calde che influenzano negativamente il loro habitat, i nuovi dati mostrano che la popolazione degli orsi polari alle Svalbard è in aumentato. News Bureau NTB ha riferito Mercoledì che i ricercatori ritengono che gli orsi polari si possano essere adattati agli effetti del cambiamento climatico. I ricercatori provenienti dal Norsk Polarinstitutt a Tromsø hanno condotto il loro primo censimento delle specie a partire dal 2004 per quanto riguarda la popolazione dell’orso polare alle Svalbard e nelle porzioni norvegesi del Mare di Barents. “La popolazione è aumentata”, secondo quanto ha affermato Jon Aars dell’Istituto polare a NTB. “La popolazione dell’orso polare norvegese è ora stata calcolata in 975 orsi, rispetto ai 685 di oltre 11 anni fa. Aars ha sottolineato che c’è un certo grado di incertezza nel qunatificare i numeri, ma i ricercatori sono sicuri nell’affermare che c’è stato un aumento nel loro numero totale.

E sono anche  in ‘buona forma’ – Ed ha anche affermato che gli orsi polari individuati e contati erano in buona forma. “Il ghiaccio è arrivato presto nell’autunno del 2014 ed è durato a lungo. Questo significa molto per gli orsi.” Le condizioni del ghiaccio nel Mare di Barents sono stati scarsi nella maggior parte degli anni a partire dal 2000, e i ricercatori sono stati estremamente preoccupati per lo stato della popolazione degli orsi polari. “E’ positivo vedere che gli orsi polari sono usciti bene da condizioni passate che erano state ben peggiori per diversi anni”, ha detto Aars alla NTB. Però, questo non significa che il pericolo è passato, ha sottolineato: “Se gli anni con mancanza di ghiaccio aumenteranno, la situazione può diventare rapidamente critica”.

Ancora una specie in pericolo –   Gli orsi polari sono stati catalogati come una specie a rischio sulle Svalbard nel 1973, dopo più di 100 anni di caccia legale. La popolazione poi è aumentata in tempi relativamente brevi, ma gli anni con condizioni di ghiaccio pessime hanno scatenato l’incertezza sul fatto che la loro popolazione sarebbe ristagnata.

Aars ha osservato che gli orsi hanno mangiato per un sacco di anni, meno durante gli anni con cattive condizioni (ma possono utilizzare le loro riserve). Possono sopravvivere per più di un anno e mezzo senza mangiare, anche quando portano i cuccioli”. Ha aggiunto che gli orsi non sono totalmente dipendenti dal ghiaccio e possono sopravvivere sulla terra molto bene. La domanda ora è se e quando la popolazione inizierà a diminuire a causa della mancanza di ghiaccio. Aars ha detto che c’era un totale di circa 2.650 orsi in tutto il Mare di Barents nel 2004, comprese le aree russe controllate. I ricercatori russi hanno partecipato al censimento del 2004, ma hanno rifiutato di cooperare dallo scorso anno, probabilmente a causa di una maggiore tensione politica tra la Russia, la Norvegia e altri paesi occidentali.

“Quindi non abbiamo ancora il quadro completo”, ha detto Aars, “ma a prescindere da questo studio, quest’anno è evidente che gli orsi (norvegesi) si sanno gestire molto bene “

Fonte : http://www.newsinenglish.no/2015/12/23/polar-bears-make-a-comeback/